Under 14 – Il nuovo mondo

Il nuovo mondo

di Ilenia Vinciguerra

Tutor: Stefania Di Nuzzo – Scuola: I.C. Piazza Sauli di Roma

 

Lasciare la propria casa, i propri amici e le proprie abitudini non è mai facile per nessuno, soprattutto se la meta del viaggio non è chiara. Sono settimane che sento parlare di questa “America”, delle possibilità che offre e degli enormi benefici che porterà a me e alla mia famiglia, ma io non credo a queste cose e le considero false promesse. Anche se continueremo a vivere in miseria, almeno potrò vedere il mondo e aprirmi a nuovi orizzonti.

Dopo una rapida colazione, eravamo pronti a partire anche se in fondo nessuno di noi era mai stato così impreparato e spaventato. Per me chiudere la porta di casa significava chiudere un capitolo della mia vita. Avevo a disposizione un foglio bianco, potevo diventare la penna e l’inchiostro per scrivere una storia totalmente nuova. Sono stata io a girare la chiave nella serratura; in quel momento ho provato tante emozioni: tristezza, gioia, paura, preoccupazione, ansia… Prima di salire sul carro di mio padre, promisi a me stessa di non voltarmi a guardare indietro, ma cedetti. Continuare a reprimere le mie emozioni sarebbe stato inutile e finii per sfogarmi in un lungo pianto. Il viaggio durò molte ore, il nostro unico asino trainava il carro a fatica e il nostro peso non faceva che rallentarci.

Prima che il sole tramontasse, decidemmo di fermarci sul ciglio della strada. Non era la prima volta che dormivo sul carro: la paglia mi provocò irritazioni e prurito mentre le dure tavole di legno mi spaccavano la schiena, ma la stanchezza prese il sopravvento e caddi in un lungo sonno agitato. Il giorno seguente fui svegliata da un brusco movimento dell’asino che mi fece sobbalzare. Svegliai mio padre che dopo qualche sbuffo si sistemò la vecchia camicia logora che, negli anni passati senza potersene permettere un’altra, aveva assunto un colore giallastro. Ripartimmo subito. La strada sterrata era circondata da una fitta foresta di pini che oscurava la luce del sole rendendoci più difficile stabilire che ore fossero. Nei momenti di noia mi intrattenevo contando i secondi che passavano, lo consideravo rilassante e mi aiutava a scavare un vuoto nei miei pensieri. Passate tre ore ci fermammo per qualche minuto.

Fui incaricata di riempire le borracce con l’acqua fresca del torrente; ogni volta che questo compito mi veniva assegnato, mio padre mi ripeteva che dovevo prendere l’acqua vicino alla roccia da cui sgorgava e che dovevo evitare quella stagnante. Ma stavolta non disse nulla, non sapevo come interpretare il suo silenzio; mi limitai a scendere dal carro e a prendere l’acqua. Al mio ritorno ripartimmo subito, la foresta era meno fitta e si riusciva ad intravedere il rosso tramonto con le sue lingue di fuoco. Mancavano ancora un paio d’ore che a me sembrarono un’eternità. Finalmente riuscii a scorgere il mare attraverso gli alberi: paura ed eccitazione mi invasero, era da lì che cominciava il vero viaggio.

La notte passò lentamente, non chiusi occhio, il mio cervello continuava ad elaborare ipotesi, aspettative, preoccupazioni. Mi fu impossibile dormire. Al sorgere del sole anche i miei genitori si alzarono esausti, non credo che avessero dormito quella notte, probabilmente erano agitati quanto me. Proseguimmo verso il porto. Dove avremmo lasciato il carro? chiedevo a me stessa. Sulla banchina mi apparve una folla vociante. Dopo qualche secondo di esitazione mio padre cominciò a correre verso una gigantesca nave bianca e blu. Sulla fiancata c’era scritto “Freedom”, in nero, a grossi caratteri.

Non avevo idea di cosa significasse e i miei tentativi di analizzare la parola furono interrotti da mia madre che mi spingeva nella folla. Mi urlò di salire sulla nave. Prima che un’enorme massa di persone la inghiottisse, la vidi trattenere a stento una lacrima. Non capivo cosa stesse succedendo. Tra spintoni e gomitate riuscii a raggiungere la nave. Ad attendermi c’erano alcuni membri dell’equipaggio che si occupavano di dividere le donne dagli uomini. Ero sperduta e confusa, non riuscivo a ragionare in maniera lucida e finii col fermarmi proprio nel bel mezzo del ponte che collegava la terraferma alla nave. Una delle donne, vedendomi in difficoltà, mi disse di seguirla. Camminai dietro di lei, procedemmo lungo il ponte di legno fino a raggiungere la porta della stiva.

Una volta entrata ringraziai la donna e mi buttai sulla prima cuccetta che vidi: il materasso, se lo si può definire tale, era duro e pesante, sopra c’era un cuscino altrettanto duro e una coperta logora e sporca. Mi guardai intorno in cerca di mia madre ma non la trovai. Chiesi alla donna sdraiata nel letto accanto al mio se ci fossero altri scompartimenti femminili; mi rispose che quello era l’unico. Rassegnata mi sdraiai anch’io e frugai nella mia borsa in cerca di un po’ d’acqua. Tastai con la mano il recipiente metallico che la conteneva, ma trovai qualcos’altro: sembrava un foglio spiegazzato.

Non ricordavo di avere della carta con me, incuriosita la tirai fuori dallo zaino. Era una lettera dei miei genitori: non avevano abbastanza soldi per far partire tutti e tre e avevano deciso di concedere questa opportunità solo a me. Non capivo perché mi avessero tenuta all’oscuro di tutto, non riuscivo ad accettare di essere grata per quel gesto. Senza di loro mi sentivo persa, era come se una parte di me fosse stata violentemente recisa. Dovevo rimanere forte, mi aspettava un lungo viaggio.

La notte fu molto lunga, il legno scricchiolava a ogni minimo movimento, ma alla fine la stanchezza prese il sopravvento e mi addormentai. Mi svegliai all’alba. Scesi dalla cuccetta, raccattai le mie poche cose e le sistemai nella borsa. Poi mi diressi verso l’uscita della stiva. Un vento fresco e leggero mi scompigliò i capelli, il sole stava emergendo da sotto il mare, dando al cielo un colore rossastro. La colazione consisteva in una tazza di latte rancido, una fetta di pane tostato e una noce di burro ancora più acido del latte. Appena ricevetti la mia razione, sedetti su una panca e posai il cibo sul tavolo di legno. Accanto a me era seduto un uomo di mezza età che discorreva animatamente di politica con un signore, seduto di fronte a lui. Sempre più gente si unì, e quella semplice conversazione si trasformò in un animato dibattito.

Finita la colazione continuai a girovagare. Ogni tanto mi fermavo e mi sporgevo dal parapetto; il mare era calmo, probabilmente non avevamo ancora raggiunto l’oceano. Verso mezzogiorno tornai alla mensa; per pranzo c’era un piatto di zuppa leggera e insapore e un pezzo di pane. Passai il pomeriggio a rileggere la lettera dei miei genitori. Non li avrei mai perdonati. Ero convinta che mi avessero abbandonata. Fino a mezzanotte stetti seduta sotto la ciminiera a guardare le stelle: erano così luminose a quell’ora. Passò una settimana di mare aperto, inesplorato, non si vedeva altro che acqua.

Un giorno, a colazione si presentò il capitano in persona. Egli richiamò tutti al silenzio e cominciò a parlare. Disse che mancavano pochi giorni all’arrivo e che tutti avrebbero dovuto recarsi nei propri alloggi per essere visitati dal medico di bordo. Chiunque avesse presentato sintomi di tubercolosi o di altre malattie infettive, sarebbe stato immediatamente imbarcato su un piroscafo per l’Italia. Obbedii e mi misi in piedi davanti alla cuccetta. Il medico mi visitò per prima, mi controllò occhi, denti, orecchie e mi chiese se avessi sputato sangue ultimamente. Risposi di no; il medico prese un modulo e barrò la casella “sano”, poi mi disse di compilare il resto del foglio con i miei dati anagrafici.

Gli consegnai il modulo, lui lo firmò e andò a visitare gli altri passeggeri. Passarono tre giorni. Come di consueto facevo una passeggiata sul ponte; ora riuscivo a vedere la terraferma, era così vicina, così bella. Mancava ancora una notte di viaggio. E la notte passò. All’alba corsi ad affacciarmi al parapetto. Davanti a me, un’imponente statua di bronzo con il braccio alzato. Ero arrivata nel nuovo mondo.

Dopo il mio arrivo a New York, mi unii alla comunità italiana. Per molto tempo ho lavorato come cameriera in un ristorante. Essere italiana ha ostacolato parecchio la mia integrazione in questo Paese. Oggi ho ventidue anni, ho scritto un libro con le storie di emigrazione della mia gente e di recente ho incontrato un editore che ha deciso di pubblicarlo. Solo ora sento di aver lasciato veramente il vecchio mondo.

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