Racconti in città/Ore 7 del mattino. La città oggi è una minaccia di sguardi.

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Ore 7 del mattino.
La città oggi è una minaccia di sguardi

Ho preso il caffè così come si prende una medicina, per abitudine, senza averne davvero voglia. Un caffè amaro e ormai freddo bevuto da solo e in piedi davanti alla macchina del gas. Come tutte le mattine del resto. Come tutte le mattine ho zittito con fastidio la radio sulla voce asettica dello speaker, sulle solite notizie: il crollo della borsa, la guerra oltre il Mediterraneo, l’ennesimo naufragio di clandestini al largo delle coste di Lampedusa.

Esco di casa, quasi sbatto la porta e mi precipito in strada. Ho fretta, sono in ritardo per il lavoro. Come tutte le mattine del resto. Accendo la macchina, parto. Ore 7. Così ogni giorno da oltre venti anni. Ci si fa l’abitudine e l’abitudine governa i tuoi gesti e i tuoi pensieri, meccanicamente, quasi non fossi tu padrone di te stesso e della tua vita.

Ma oggi la città ha qualcosa di diverso, di impalpabile, che non so decifrare e che mi mette a disagio. Sarà questa nebbia sottile che trattiene oltre il dovuto le paure e le ansie della notte, sarà quest’aria sospesa, fuori sincrono e fuori dal tempo, estranea e indifferente come il riverbero di qualcosa accaduta chissà dove, chissà quando, e proiettata ora in questo spazio presente.

Quasi un presentimento, non so di cosa, ma ha l’odore e il colore di una banale normalità.

Oggi la città è una minaccia di sguardi, ho la netta impressione che le persone che incrocio non fanno altro che fissarmi. Non sono occhiate furtive, veloci, no, mi puntano gli occhi contro con insistenza, si direbbe con timore, con incredulità.

O forse è orrore quello che percepisco nel loro sguardo?

Mi osservo nello specchietto retrovisore ma non noto nulla di anormale nel mio viso. E’ il mio volto di sempre, il volto di un uomo di cinquanta anni, non bello ma nemmeno brutto. Un volto come tanti. Cerco di non pensarci, sicuramente è solo una mia impressione. Cerco distrazioni ripensando alla cena con Luisa. E’ stata una sera piacevole, tutto sommato, terminata come sempre a letto a casa sua. Poca tenerezza, poche promesse e poi di nuovo da me nel cuore della notte a riannodare la mia solitudine interrotta.

Accendo la radio e ritrovo ancora la voce asettica dello speaker e le stesse notizie: il crollo della borsa, la guerra oltre il Mediterraneo, l’ennesimo naufragio di clandestini. E’ imbarazzante la noia e la banalità di certe informazioni. Cerco un’altra stazione. “Losing my religion” inonda l’abitacolo della mia autovettura con la solita suadente tristezza.

Mi fermo al rosso. Un lavavetri si precipita sul mio parabrezza e meccanicamente do un leggero colpo di clacson e faccio più volte dondolare l’indice da destra verso sinistra. Non basta. Ingrano la prima e faccio mezzo metro in avanti e quello quasi si schianta a terra. Ha un viso regolare e due occhi vivaci e allegri, nonostante siano solo le 7 del mattino. Sorride e mentre si allontana mi restituisce la visione completa del viso dell’uomo seduto al volante nell’autovettura accanto alla mia.

Possibile sia un uomo quello? Non riesco a credere ai miei occhi. Ha un “volto” eccessivamente grande e uno sguardo freddo di un lupo in caccia con una fronte troppo alta e fauci da predatore. Ma sono i suoi occhi che più mi turbano, sbarrati, con una espressione attonita e perplessa che mi fissano in una maniera tale da togliermi il respiro. Mi libero da quello sguardo.

Ho un tardivo incubo da cui non riesco a fuggire? Sto sognando è evidente. “But that was just a dream”. Canta Michael Stipe.

Parto di scatto e alzo il volume della radio come a creare una barriera protettiva tra me e il mondo là fuori. Sono stordito, confuso e quasi non mi accorgo del gorilla che attraversa la strada tenendo per mano un bambino. Freno di colpo per non investirli. Il gorilla mi guarda con occhi cattivi e grida delle “parole” incomprensibili. Sopraggiungono altre due “creature”, non so come definirle altrimenti, mi guardano con raccapriccio e spavento.

Sono spaventato anch’io. Incanalato nel traffico mi accosto ad un autobus e dal vapore dei respiri, attraverso i finestrini, emergono strani esseri dalle facce deformate, dei mostri inespressivi. Alcuni mi guardano con indifferenza altri nascondono il viso con le mani quasi a scongiurare una vista insopportabile da tenere. Sento il mio cuore battere all’impazzata, le mie mani tremare e un rivolo di sudore freddo solcare la mia schiena.

In una macchina accanto alla mia, su di un seggiolino, il viso dolce di un bambino mi dà un attimo di serena normalità. Guardo il genitore alla guida, è un facocero con due zanne minacciose. Ad un incrocio, due oranghi in divisa agitano la loro paletta d’ordinanza.

Torno a guardare il mio volto nello specchietto retrovisore. No, non c’è niente che non va, niente di anormale nel mio viso. E’ il volto mio di sempre, il volto di un mostro di cinquanta anni.

Devo sbrigarmi o farò tardi in ufficio.

Gaetano Pezzella
Roma

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