Under 14 – Colibrì
Colibrì
di Sveva Iapella
Tutor: Alessandra Valentini – Scuola: I.C. R. Giovagnoli di Monterotondo (RM)
“Il colibrì è un piccolo uccellino dal becco allungato e dal piumaggio sgargiante. Le ali sono minuscole, ma si muovono tanto velocemente che questo piccolo animale detiene il record per il numero di battiti d’ali al secondo” diceva il giornalista alla televisione. Zack osservava le immagini del documentario sgranocchiando le poche patatine rimaste nel sacchetto, abbandonato sul divano. La televisione trasmetteva le immagini di un colibrì dal piumaggio dai mille colori.
“…Oltre a questo, si nutre anche di insetti e si posa da un fiore all’altro, prediligendo le…” La frase del giornalista si perse nelle orecchie di Zack e non trovò più seguito. Una voce, contrastante rispetto a quella pacata e cordiale del giornalista, sovrastò maleducatamente le frasi che provenivano dal televisore. Zack continuò a guardare, ma non ascoltava ciò che venivadetto. I suoi occhi vedevano scorrere ancora le immagini del colibrì, ma le sue orecchie ascoltavano una conversazione prima pacata, poi animata, in seguito selvaggia e infine brutale. La voce del padre contrastava quella della madre, entrambe si agguantavano, si tiravano per i capelli, si aggrappavano disperatamente l’una all’altra su una parete invisibile fatta di insulti, offese, provocazioni, giudizi, parole scurrili che si trafiggevano l’un l’altra. Parole, per carità, solo parole, che, come Zack sapeva bene, non sarebbero sfociate in schiaffi, lividi o altre violenze fisiche. O almeno tutto ciò non era mai successo. Le possibilità, tuttavia, che un giorno la madre si fosse trovata dei lividi sul viso non si potevano azzerare completamente, neanche nella mente più positiva e fantasiosa. Questa volta però il padre non era ubriaco come altre volte e Zack poteva tirare un amarissimo sospiro di sollievo. Il ragazzo era stanco. Nonostante i genitori fossero semplicemente nella stanza accanto, li sentiva a chilometri di distanza, lontani dalla mente di Zack, lontani dal divano sul quale, come sognava il ragazzo, in una famiglia normale avrebbero potuto chiacchierare e guardare pacificamente la televisione abbracciati tra loro. Invece no.
Senza neanche pensarci tanto, Zack si alzò, mise da parte il sacchetto delle patatine e se ne andò. Lasciò i genitori in casa, silenziosamente, senza dare disturbo, chiuse piano la porta. Piano. Perché nella sua mente vide quella porta come la porta del suo cuore e, se l’avesse sbattuta violentemente, come la rabbia gli suggeriva di fare, avrebbe percepito uno strano ed inconfondibile dolore al petto. Lasciandosi la casa alle spalle, si liberava di un peso e si poteva abbandonare al suo mondo, un mondo migliore. Camminava per le strade, mentre si avvicinava l’imbrunire e le cose si tingevano di colori più scuri che piano piano sbiadivano e si spegnevano sotto il cielo di stelle.
Zack vagò ancora per un po’ per le strade con un cuore vagabondo e pesante rinchiuso nelle costole, in giro, cercando chissà cosa, errante, senza una casa vera. Il ragazzo si recò sul lungomare a passeggiare ancora, finché arrivò nei pressi della parte meno frequentata della spiaggia.
Scavalcò il muretto che separava la strada dal bagnasciuga, controllando che intorno non ci fosse nessuno e si arrampicò sugli scogli.
Seduto lì, respirò a pieni polmoni la brezza marina e fece perdere il suo sguardo nell’orizzonte blu. La luce debole delle stelle e della luna galleggiava sulle onde come il soffio del vento fa tra l’erba di un prato. Ad un certo punto, però, scorse qualcosa in lontananza. Qualcosa di scuro e di indefinito, fatto di puntini. Aguzzò la vista, ma senza risultato, finché la cosa fu illuminata dalla luce lattea della luna: una barca, con delle persone sopra. Un guscio di legno, marcito dall’acqua e dal tempo, pagato con denaro, fatica e sogni. Sogni che sfumano in speranze, sogni che sfumano in illusioni. Le sagome strette e compresse in una nuvola di ombre, persone senza volto,senza identità, che vivono nel silenzio e nella segretezza della notte, perché loro no, non hanno diritto ad entrare nel Paese, loro non hanno il diritto di fuggire dalla guerra.“No, un momento, la barca è al contrario, è ribaltata su sé stessa e le persone vi si aggrappano…” si disse Zack nella mente.
“Fatti loro, se c’è la guerra. Ciò che fanno è illegale. Non hanno il diritto.”
Già. Non abbiamo il diritto di essere felici. Non abbiamo il diritto di cercare quella cosa luccicante che splende a poca distanza da noi, quella cosa che si chiama libertà.
Inizialmente Zack non seppe cosa fare, poi scattò in piedi, arrancò sugli scogli e scavalcò nuovamente il muretto. Corse a perdifiato, il cuore in gola e la mente tremante e vuota, giunse alla baracca sulla spiaggia di Jesse, il vecchio pescatore con il quale aveva parlato molte volte mentre sua madre sceglieva il pesce da comprare, al mercato della domenica. Bussò alla porta della baracca. Passarono interminabili secondi prima che l’anziano pescatore aprisse. Zack gli raccontò ciò che aveva visto e subito il vecchio afferrò le chiavi della sua barca.
“Ti prego Jesse” gli aveva detto Zack “fa’ qualcosa, portami con te, dobbiamo salvarli”.
L’uomo mise in moto la barca e fece sedere Zack su un barile, vicino alle reti per i pesci.
Il ragazzo guardava avidamente l’acqua in cerca di qualcuno, in cerca di un corpo da portare in salvo. L’acqua era scura e avida, nera e profonda, la bocca di una bestia affamata di vagabondi come Zack, le fauci di un mostro che non era quello di una fiaba. Zack cercava, cercava freneticamente con lo sguardo. Finché, nella scia illuminata dalla luna, comparve un velo. I colori sembravano una breccia nel nero dell’acqua. “Laggiù, Jesse, laggiù!” urlò il ragazzo, mentre la barca dal motore gorgogliante si avvicinava sempre di più. Zack si sporse, allungò il braccio nell’acqua, la mano tremante, finché non si sentì afferrato da un altro braccio, un’altra mano, più scura e affusolata della sua.
L’acqua mi sta inghiottendo. Continua ad entrare nella bocca, nel naso e nei polmoni, e non mi lascia andare, il corpo si fa sempre più pesante…Prendimi, Allah, afferrami la mano, toglimi il respiro.
Zack tirò la persona verso di sé, facendola cadere nella barca: gocciolava d’acqua, ma i colori del suo vestito, così sgargianti ed accesi, non li spegneva, e non li avrebbe mai spenti, niente e nessuno. Quando la persona si voltò, gli occhi del ragazzo si incontrarono con quelli grandi, scuri e contornati da un velo di giallo, di una ragazza. Quello sguardo travolse Zack come un’onda travolge uno scoglio.
Grazie, Allah, grazie.
Quella notte Zack non la dimenticò mai. Grazie a Jesse molte persone erano salve, erano scampate alla morte e Zack era cresciuto nel cuore.
Restava pur sempre un vagabondo, ma era un vagabondo diverso.
Un giorno d’estate si trovava sotto un albero, il canto delle cicale insisteva ad entrare nelle sue orecchie mentre il vento ristoratore gli scompigliava i capelli e i pensieri.
“Zack, Zack!” si sentì chiamare. Si voltò ed eccola lì, Leah. Il sorriso splendeva più della luce bianca del sole e la pelle più scura del carbone si intravedeva, timida, tra i veli del vestito. I colori, sempre luminosi, sempre vivi, sempre insistenti e testardi, come quelli di un colibrì. Erano piccoli, loro, i migranti, i vagabondi, gli ultimi, ma avevano le ali che li portavano via, da un fiore all’altro, lontano dalla guerra nel Paese o dalla guerra nella casa, non faceva differenza. Ogni volta che Zack vedeva Leah, rivedeva il colibrì nel televisore, vedeva il mare di quella notte e gli occhi che lo fissarono.
Vedeva sé stesso. Era un migrante nel cuore. “Ciao, Leah”.
Si presero per mano. Piccoli, forti, pieni di colori. Colibrì.