Under 14 – Abúlé
Abúlé
di Marianna Dichiara
Tutor: Patrizia Di Chiara – Scuola: I.C. Manzi di Roma
Da quando sono qui non sono più io. Non sorrido più come una volta e, guardandomi allo specchio, non mi riconosco. Ho perso tutta la mia personalità e più tento di ricordarmi come ero, più non ci riesco. Era sempre stato così facile essere me, ma dopo quello che ho visto non vivo più. Come un animale, mi basta mettere insieme pranzo e cena, non mi curo più di niente. Forse è per questo che in questa scuola italiana tutti mi guardano come un animale in estinzione, selvatico e stupido. A me, invece, non sfugge niente, dalla risata più clamorosa all’occhiata più sfuggente. Sto sempre per conto mio, in ogni momento della giornata. Una volta mi piaceva stare in mezzo alla gente, far ridere gli altri, essere nei loro pensieri. Ora non mi importa più. La vecchia Fatu era allegra, vivace, correva per il gusto di sentire l’erba sotto i piedi e il vento tra i capelli, sorrideva alle sue amiche per non farle sentire sole. Ora quell’erba è solo cenere, io sono in salvo, ma molte ragazze che conoscevo no. Sento ancora le urla di Aisha intrappolata da una casa crollata sopra di lei, che chiede aiuto e io che non so cosa fare. Non posso annegare la mia colpa, non potrò mai. A ricordarmelo c’è il mio flauto, unico relitto del passato che una volta aveva il suono più dolce del mondo e che ora è muto. Da quando sono qui, poi, non sento più l’affetto dei miei, troppo occupati a trovare un modo per farci mangiare e non farci trovare senza passaporto. Mio fratello è sparito. Non torna mai a casa, non ho idea di dove sia, ma ho paura che si sia cacciato in qualche guaio, perché l’unica cosa che mi ha lasciato è un biglietto dove mi scriveva di non arrendermi. A che cosa? Alla nostra condizione, al fatto che abbiamo abbandonato tutti quelli che conoscevamo? O alla consapevolezza che niente tornerà com’era? A che cosa, fratellone? Comunque non importa, io ho mollato già da un po’.
Un altro cinque. Ormai ci ho fatto l’abitudine. Una volta sarei impazzita per un voto del genere, anzi, non l’avrei proprio avuto. Ora quel passato mi sembra lontano mille miglia. Ma dopotutto è questo che gli insegnanti si aspettano da una ragazza straniera. E se neanche loro credono che io possa fare di più, non vale la pena provarci. Alla ricreazione mi metto in disparte, nell’angolo più remoto del corridoio. Poi succede una cosa strana. Un ragazzo si avvicina. Penso che sia una mia impressione e guardo altrove. Ma dopo qualche secondo me lo ritrovo proprio sotto gli occhi.
–Ciao, -inizia-sei nuova? Non ti avevo mai visto qui – . Io non rispondo. Voglio che mi creda come tutti una ragazzina nera che non sa parlare e non capisce quando le si parla. Così forse dopo un po’si stancherà e se ne andrà. Ma le mie speranze vengono infrante.
–Ti ho notata la settimana scorsa e ho pensato tipo “forte, una ragazza nuova”. Tu sei nel corso E, vero? –. Di nuovo scena muta. Cosa vuole? –In ogni caso, io sono Michele – tende la mano. Io non la prendo neanche. Suona la campanella. – Oh, la verifica! Augurami buona fortuna, sono un caso disperato in spagnolo! –. E se va, come è venuto.
Questo pomeriggio ripenso allo strano incontro dell’intervallo. Era la prima volta che qualcuno mi si avvicinava in assoluto. Nessuno della mia classe mi aveva prima rivolto la parola. Probabilmente avrà avuto pena di me. Molti “più fortunati” a volte si sentono in dovere di aiutare chi ritengono inferiore. Ma io non avevo bisogno di aiuto, di compassione. Avevo bisogno di qualcos’altro. Tiro fuori il mio flauto di legno dal cassetto e lo estraggo dal fodero. Lo appoggio alle labbra. Ripenso a quando lo suonavo al mio paese, gli occhi socchiusi e le gambe incrociate di fronte al sole, sfidando la sua bellezza con le mie note. E ricordo gli occhi dei passanti che mi guardavano suonare e la vecchia saggia che assentiva col capo, come una nonna affettuosa, le vie polverose dove sfilavo con lo strumento in mano, le piccole casette, le bancarelle di frutta e spezie. Soffio. Ma è sempre la stessa storia. Il mio flauto non vuole proprio suonare. Ce la metto tutta, ma quello insiste a non emettere un fiato. Forse mi vuole far capire che manca quella cosa di cui ho bisogno. Disperato bisogno. Devo trovarla oppure so che potrei perdere per sempre il mio bel flauto. Solo che non so cos’è.
Il giorno dopo all’entrata mi guardo intorno, come per cercare qualcosa. Non mi accorgo che poco lontano qualcuno sta cercando di ottenere la mia attenzione.
–Ehi, ciao, come va? Non mi hai ancora detto come ti chiami– Michele vede che non gli rispondo e cambia discorso–. La verifica è andata molto male. Come temevo. Eppure stavolta avevo studiato! – . Va bene, ora non so proprio cosa dire. Però un po’ mi fa piacere non essere più sola. –Era un sorriso? – mi chiede. In effetti, stavo sorridendo, e non me n’ero neanche accorta. Smetto subito. Lui sembra compiaciuto.
–Sembri un’altra persona quando sorridi, lo sai?
–Non stavo sorridendo.
–Ah, ti ho fatto parlare! –. Accidenti, gli avevo tenuto il gioco!
–Hai una bella voce. È molto melodiosa. Per caso canti?
–No, suonavo il flauto–. Sospiro. Ormai è inutile continuare a recitare anche con lui. In un certo senso, mi sento libera.
–Beh, le due cose sono molto simili. Il flauto è come un microfono, amplifica il suono della voce, per questo i timbri sono molto diversi da persona a persona.
–E tu come sai queste cose? –Chiesi. Ora inizio a essere davvero interessata.
–Io suono la chitarra e lo xalam. Adoro la musica, so tutto di tutti gli strumenti.
–Lo xalam? –I miei occhi brillano. –È uno strumento tipico africano, mio bàbá lo suonava. Io a volte suonavo con lui.
–Lo so, è bellissimo, vero? Aspetta! Potremmo suonare insieme qualche volta, no? –. Entro in panico. Aspetta Fatu, cosa stai facendo? Cosa ti ha fatto questo ragazzo? Sai benissimo che non puoi suonare. –No, perché fai tutto questo? Cosa vuoi da me?
… è un po’ sbigottito. –Come perché? Voglio essere tuo amico!
-Chi te l’ha chiesto? Stavo benissimo da sola!
–Non è vero e tu lo sai. Sono venuto perché ho sentito che ne avevi bisogno. Perché pensi che guarda caso, anch’io suoni? Noi musicisti sentiamo quando la musica ha invaso il cuore di qualcun altro come noi. E la desolazione che provano quando rimangono in silenzio–. Mi manca l’aria. Entro a scuola, lasciando Michele da solo. Vorrei piangere.
Ho ripensato tutto il giorno a quello che mi ha detto Michele. Mi sento così strana. Dopo tanto tempo sono stata felice e per questo ho paura. Ho paura di dimenticare ciò che è accaduto nel mio Paese. Io non posso ricominciare a essere in un altro posto quella che ero là, sarebbe tradimento. O no? Prendo frettolosamente il mio flauto, ho bisogno di sentirlo nelle mie mani. Provo a pensare al mio Paese, ma invece vedo il viso di Michele. Soffio e esce un suono. Il primo suono dopo due settimane. Resto basita. Che vuol dire? Poi capisco. Il flauto aveva sempre suonato dove ero a casa. Fino a quel momento non lo ero. Ma ora ho delle ragioni per credere che questo è il mio posto. È questa la verità. Sto meglio. E non posso far finta di niente. Posso vivere. Devo lasciare qualcosa alle spalle se voglio andare avanti. Bel, meraviglioso Paese dove sono nata, ti amo, ma non siamo più insieme. Tu vai per la tua strada e io per la mia. Mi sento come se mi fossi risvegliata da un sogno. Inizio a suonare festosa, nota dopo l’altra sempre più velocemente. Mia madre sente la musica e accorre. Mi guarda e sorride dopo tantissimo tempo. Io l’abbraccio e piangiamo insieme.
Davanti al cancello cerco Michele ma non c’è. Guardo meglio, con insistenza. Ad un tratto lo vedo tra la folla, è particolarmente giù di morale. Lo raggiungo senza farmi vedere. Poi da dietro le sue spalle dico a gran voce per sovrastare quelle degli altri: –A proposito, mi chiamo Fatu. – Lui si gira ma già aveva capito che ero io. Fa uno sforzo per non sembrare felice.
–Scusami–. A quel punto non si trattiene più. Sorride. Anch’io, e stavolta senza vergogna.