L’ultima pietra

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L’ultima pietra

di Ezio Elia

 

Il Land Rover sale lento sulla pista sterrata, di tanto in tanto i rami strisciano lungo la cabina e le foglie si stagliano in primo piano sui vetri laterali, la musica dell’autoradio gracchia sovrapposta al chiacchiericcio dei miei compagni. Ho lasciato i posti più comodi sul sedile davanti e viaggio coricato sugli zaini, godendomi in qualche modo il dondolio della macchina: l’occhio traguarda dal finestrino verso l’alto e il paesaggio sfugge tra scorci di valloni dimenticati e montagne refrattarie alla presenza umana. Ancora due tornanti e siamo arrivati; comincio a preparami psicologicamente alla giornata: ore di scavo in uno stretto cunicolo con l’aria gelida, darsi il cambio nelle varie posizioni della catena, stupidaggini che si intervallano con imprecazioni e accidenti, momenti di nervosismo se il trapano non funziona o una martellata ti pesta il dito…
Piero ha calcolato che questa è la quindicesima giornata di scavo da quando abbiamo iniziato a svuotare un condotto naturale intasato di pietre e fango. Il sogno è quello di trovare la via per raggiungere il torrente sotterraneo che sicuramente scorre dentro questa montagna e che sgorga cento metri più in là, in un valloncello parallelo. L’acqua esce da una bellissima polla che però preclude ogni esplorazione umana. Fortunatamente a furia di cercare nei dintorni Gigliola ha trovato una fessura da cui soffia una forte corrente d’aria: ecco la via, basta solo scavare! La fessura si è rivelata essere il piccolo spiraglio aperto di un più grande cunicolo, anticamente scavato dalle acque, ora in buona parte intasato. Tutti gli speleologi sanno bene quante grotte sono state scoperte grazie a notevoli lavori di scavo: adesso tocca a noi.
Dalle automobili al punto di scavo sono venti minuti di cammino in una splendida faggeta; arrivati all’ingresso del buco, mentre ci sistemiamo, Franca, l’archeologa del gruppo (professionista in modo saltuario, per campare fa la commessa part time in un negozio di erboristeria), esclama: “Ogni volta che vedo un bosco di faggi, pulitissimo, senza erba e col terreno ricoperto dalle piccole foglie rossicce cadute, con la luce radente del sole, mi convinco sempre più della correttezza della tesi storica secondo la quale per gli antichi liguri le faggete fossero luoghi sacri!”
“Mah!”, replico, “ in quei tempi ci dovevano esserci così tante faggete che praticamente era tutto sacro!”
“E allora? Non è mica necessario che le cose sacre siano rare! Basta che siano belle, affascinanti, misteriose, dense di significato.”
Sì, penso, in effetti anche oggi su moltissime cime di montagna è stata posta una croce, ogni cima è bella a modo suo…i santuari, soprattutto quelli antichi, sono sempre in posti belli, magari vicino a sorgenti o in luoghi panoramici. La rarità non è un requisito necessario della bellezza e la sacralità è spesso un omaggio alla bellezza della Terra.
“Beh”, interviene Aldo, “speriamo invece di trovare una grotta senza nessuna traccia di druidi celtici o altre balle del genere: non voglio fare tutto questo scavo per poi trovarmi le esplorazioni bloccate dalle Autorità per quattro cocci marci che qualcuno ha buttato in un buco duemila anni fa!”
“Ma non ti darebbe soddisfazione aver passato quindici giorni della tua vita a toglier pietre e poi scoprire di aver messo le mani su un immondezzaio dell’età del bronzo?” rilancia Giacomo.
“Non c’è pericolo”, dice Franca,” il posto mi sembra abbastanza scomodo da escludere che una volta qui ci potesse essere un insediamento umano…”.
“Che ne sai tu?” replico, “Magari c’erano già le ecomafie celtiche che dirigevano il traffico di rifiuti tossici prodotti dai druidi e li nascondevano nelle grotte per avvelenare le sorgenti da cui bevevano quelli della tribù avversaria…”
“Ok ragazzi!”, sbotta Piero mentre chiude il sacco da grotta e si accende la luce sul casco, “direi che il misuratore di idiozie ha raggiunto un buon livello, possiamo entrare e incominciare la fase operativa!”
Ci disponiamo lungo il cunicolo dividendoci il lavoro a catena: avanti Piero con il palanchino per smuovere le pietre e scalzare il fango con un piccolo piccone. Io sono dietro e carico il materiale in un secchio, un po’ con le mani e un po’ con una zappetta, e poi lo passo sopra la spalla a Franca; lei lo recupera e lo aggancia a una corda. Giacomo tira su il secchio attraverso un passaggio verticale di un paio di metri e lo svuota in una vasca di plastica che viene poi tirata fuori dal buco dagli altri due che scaricano il materiale giù dal pendio, rimandando dentro la vasca vuota. Nel frattempo ci viene calato un altro secchio e il giro riprende.
La mia postazione di lavoro non è male, un po’ inginocchiato un po’ seduto riesco a non soffrire troppo, l’unica cosa a cui non mi abituo è la corrente d’aria persistente che fa entrare pian piano il freddo nelle ossa.
D’altra parte se non ci fosse questo forte flusso d’aria non saremmo qui a scavare. Non è raro che gli ingressi delle grotte siano stati tappati da frane superficiali: una buona ostinazione negli scavi è già stata premiata varie volte e anche qui speriamo che il gioco valga la candela.
Dopo tre ore di scavo, cambiando ogni tanto la posizione nella catena di lavoro, usciamo per mangiare.
“Quando ho detto a mia madre che venivamo di nuovo a scavare mi ha guardato come un povero scemo” dice Giacomo. “Dopo qualche anno ha cominciato ad accettare che fossi appassionato alla speleologia ma non riesce proprio a capire come uno preferisca passare la domenica a togliere sassi da un buco invece che andare a spasso, a ballare o che so io”.
“Ma qualsiasi divertimento è un sacrificarsi per la bellezza inutile!” replico “anche ballare, sudare e faticare solo per seguire una musica, è uno sforzo assurdo!”
“Ma a ballare ci vai per cuccare le ragazze!” dice Piero, mentre offre un formaggio puzzolente.
“Non sempre e non per tutti!” esclama Franca, “c’è anche tanta gente che balla perché gli piace. Anche a me piace ballare anche se preferisco sciare o andare in grotta. Passami il pecorino”.
“Se ci pagassero non faremmo questa vita, o comunque la troveremmo terribile. Invece facciamo tutto questo per la madonna, sapendo bene che se anche trovassimo oggi una grotta, dopo averla esplorata, ricominceremmo subito a cercare e a scavare da un’altra parte” interviene Aldo.
“Certo”, aggiungo, “il fine dell’esplorazione giustifica la fatica ma a volte viene il sospetto che sia in realtà il mezzo, ovvero l’azione, la fatica, il vero oggetto del nostro desiderio e che il fine esplorativo sia solo un pretesto…”
“Non capisco, passami il formaggio e spiegati meglio!” dice Aldo.
“Voglio dire che c’è una bellezza nell’esplorare ma anche nello scavare. La fatica inutile è bella in sé” provo a precisare.
“E’ un gesto di sovranità direbbe Bataille” aggiunge Franca, “chi vuole vino?”
“E chi è, uno speleologo francese?” chiede Piero.
“No, un pensatore sociologo del ‘900…” prova a spiegare Franca.
“Va beh! Mi piace l’idea, e allora sovranamente torniamo a scavare!” esclamo, mentre ritiro i resti del pasto.
Ridacchiando ci rinfiliamo nel cunicolo, cambiando le posizioni di lavoro. Dopo una mezz’ora Giacomo dice che c’è un pietrone da parancare via e serve il trapano per mettere un attacco.
Chiedo fuori a Gigliola di mandare dentro trapano e batteria, con fix e placchette da attacco.
Passo tutto sotto e dopo poco sento il forte ronzare della punta che scava nella roccia, seguito dai colpi di martello che inseriscono il tassello fix.
“Serve una mano per il paranco?”
“Si, prova a scendere anche tu, forse ci stiamo”.
Dopo un paio di tentativi inutili Aldo lascia la corda e prova con il palanchino a far girare su un fianco il blocco mentre noi proseguiamo a tirare.
Finalmente si muove! Tra urla e imprecazioni il blocco scivola di circa un metro verso di noi, finché Aldo deve togliersi. Giacomo, il più magro viene designato a tentare la fessura.
“Continua! Si allarga! Galleria!” le grida di Giacomo filtrano tra il crescendo del brusio di Aldo e Piero che l’hanno visto alzarsi dopo un breve ma faticoso passaggio stretto. L’agitazione e la gioia esplodono.
Giacomo si riaffaccia nella strettoia e blocca Piero che era già coricato sul masso: “Ferma! Ferma! allarghiamo un po’ il passaggio che è abbastanza merdoso!”.
Giacomo riesce a far rotolare un po’ di pietre verso l’interno mentre con Piero e Aldo si decide di provare a spostare ancora il pietrone: riusciamo a smuoverlo ancora di circa mezzo metro.
Aspettando il mio turno nel passare la fessura mi gusto i particolari: oggi è stato chiaro qual è stata la mossa finale, l’ultima pietra. Altre volte è meno evidente, resta più difficile definire il gesto esatto che ha dato luogo alla scoperta, il nostro primo piede sulla Luna. Tocca a me: mentre striscio sopra la pietra mi fermo a prender fiato e ad assaporare il momento: troppo spesso la bellezza di una esplorazione sfuma nella banalità di tanti piccoli movimenti o, quando la situazione è tecnicamente difficile, nella concentrazione necessaria a superare i passaggi, ed alla fine ci si ritrova senza precisa memoria di come si è vissuto quell’attimo.
Oltre il passaggio stretto si accede lateralmente in una grande galleria che pare proseguire a destra  e a sinistra. Dietro di me c’è solo Gigliola e la aspetto mentre più avanti sento le voci degli altri; li raggiungiamo in una specie di sala piena di nuovi passaggi tutti da esplorare!
Gli sguardi che incrociamo sono bellissimi! Piero inizia a cantare l’inno del gruppo speleo, una canzone della tradizione goliardica che noi tramandiamo in una versione abbastanza irripetibile!
Ci dividiamo in due squadre per esplorare quelli che sembrano i due condotti principali che si affacciano sulla sala.
Con Giacomo e Franca affrontiamo una galleria larga e bassa, dove si avverte decisa la preziosa corrente d’aria. Dopo una cinquantina di metri privi di difficoltà, la galleria inizia ad essere addobbata di meravigliose concrezioni: dalle più classiche stalattiti e stalagmiti fino a splendide vele e colate dove si annidano piccole pozze di acqua cristallina.
Muovendoci con circospezione per non frantumare nella foga esplorativa qualche pezzo che la natura ha prodotto in migliaia di anni ci inoltriamo ancora.
Franca ci richiama: “Ehi, non vi fermate a guardare queste meraviglie?”
La raggiungo: “Sai, per me le concrezioni di una grotta che sto esplorando sono come i gioielli di una donna che sto conoscendo: non li guardo! Quando conosci una persona cerchi i suoi occhi, segui il suo respiro…come adesso sto facendo con la corrente d’aria!”
“Ho capito. Ma perdere qualche minuto a contemplare i particolari non mi sembra una follia. Dopo tutto i nostri sono i primi occhi umani che guardano tutto questo!”
Ha ragione, mi avvicino a una meravigliosa stalattite che scende per quasi un metro e collima, dopo una spanna di vuoto, con una stalagmite che sale sotto di essa. Sulla punta della stalattite una goccia esita a lungo e sembra non cadere mai.
“Ma secondo voi c’è più meraviglia nella goccia che cade o nella concrezione?”
“La meraviglia sta nella goccia ma la bellezza nella concrezione” risponde Giacomo.
“Vuoi dire che la meraviglia è per la capacità dell’artefice e la bellezza nell’opera?” chiedo.
“Sì, in un certo senso sì”.
“Beh” riprendo, “secondo me c’è anche tanta bellezza nella dinamica, nella goccia, nelle mani dell’artista. In questa fase della mia vita vedo più la bellezza dinamica che quella statica. C’è più fascino in uno sguardo ritratto in una foto che in uno splendido corpo scolpito nel marmo”.
“Tu confondi l’attraenza con la bellezza. Non è la stessa cosa!” replica Franca.
“Ok, ma voglio dire che la bellezza è dinamica. Anche nel Cantico dei Cantici tra i mille paragoni sulla bellezza fisica, molti sono dinamici: ad esempio le tette della Sulamita sono definite come gazzelle e non come le classiche colline!”
“Anche la grotta è bella perché è viva” riprende Giacomo” solo che vive in un’altra scala temporale che noi fatichiamo a percepire!”
“Condivido” rispondo “e le manifestazioni più chiare della vita della grotta sono l’aria e l’acqua ed è queste che voglio seguire!” Riparto, privilegiando le mie voglie esplorative ad una pur piacevolissima contemplazione delle meraviglie della natura.
Poco oltre la galleria prosegue in leggera discesa e senza tante concrezioni. Mi lascio superare dai compagni: ci vogliamo alternare nella soddisfazione di calcare zone nuove. Stando fermo  immagazzino di nuovo le sensazioni: esplorare è come comporre una musica che altri potranno ripetere ma il gesto creativo, quelle prime tracce nel fango, quei primi accordi nell’aria, è unico e irripetibile. E’ bellezza allo stato puro, inutile e per di più effimera, inafferrabile.
Raggiungo i miei compagni fermi sopra un pozzetto: per proseguire ci vuole la corda e, vista l’ora, torniamo indietro.
Mentre riattraversiamo il tratto concrezionato dico “vorrei dedicare almeno questa galleria a Calypso, simbolo della bellezza velata.”
“Chi era Calypso, una dea greca?”
“Più precisamente una ninfa, quella che ha irretito Ulisse per anni nell’isola Ogigia, promettendogli l’immortalità. Si narra fosse bellissima e il suo nome significa colei che porta il velo”.
Incrociamo l’altra squadra prima della fessura. Il ramo che hanno visto si innalza quasi subito con un camino che richiederà un’arrampicata artificiale, quindi sono tornati ad esplorare un tratto della prima galleria verso destra, trovando anch’essi una zona molto concrezionata che si affaccia su un lago.
Mentre aspettiamo il nostro turno per entrare nella fessura riprendo: “stavamo discutendo di dedicare questa galleria alla bellezza. Per adesso l’ipotesi migliore è Calypso, la ninfa dell’Odissea”.
“ Scusate ma a me, per celebrare la bellezza, serve una musica e viene in mente l’Halleluja di Cohen!” dice Aldo.
“Non conosco”.
“E’ molto bella ma cosa c’entra?” chiede Gigliola.
“Il testo, molto poetico, è una meditazione sulla bellezza, vuoi della musica, o meglio del comporre, vuoi della donna, o meglio del sesso, e di come tutto ciò sia comunque vissuto davanti a Dio” precisa Aldo.
“Mi sembra tosta e interessante!” rispondo.
Mentre ci cambiamo vicino alla macchina, Aldo richiama l’attenzione “ascoltate per favore!”.
Sotto la pallida luce di un tramonto autunnale, disturbate dal chiacchiericcio e dal rumore delle attrezzature che vengono riposte negli zaini, salgono le prime note dell’Halleluja. Sapientemente Aldo lascia ascoltare la prima strofa, poi ci spiega che il testo richiama dapprima la melodia segreta che Davide aveva composto e che piaceva a Dio, poi gli episodi di Betsabea e di Dalila, quando i capi di Israele si fecero sopraffare dalla bellezza delle donne. Il resto sono meditazioni personali del compositore, del suo rapporto con l’amore e con Dio….
Io non lo seguo più, mi sposto per sentire meglio la musica, che mi affascina subito.
Finito il pezzo mi riassocio agli altri e intervengo “Ok allora, per me va bene chiamarla galleria dell’Halleluja!”
“Guarda che Calypso andava bene!”
“Lo teniamo per un’altra volta, oppure le dedichiamo il lago. Questa musica mi piace proprio tanto!”
Mentre scendiamo per la pista, sempre sdraiato sugli zaini, la musica riempie di nuovo l’abitacolo e l’occhio si posa sulle cime illuminate dagli ultimi raggi di sole. Voglio cercare il testo di questa canzone. In effetti la bellezza può portare al male, deviare la volontà. Ma essa è una categoria al di la del bene e del male, indifferente alla giustizia e al dolore. Sovrana come siamo sovrani noi quando dedichiamo il meglio della nostra vita a cose inutili, improduttive, ma belle. E’ il desiderio del possesso della bellezza che ci riporta nel mondo dell’utile, del bisogno, per questo che l’arte si compra, si ruba. In questo senso la bellezza è comunque profondamente un problema umano, per quanto sentiamo fortemente che può aver a che fare con Dio. In realtà Dio, in quanto creatore, ama tutta la Terra, anche le brutture naturali del mondo. Ogni scarafone è bello a mamma sua!

 

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