L’impiegato
Racconto vincitore del Concorso
L’impiegato
di Maria Paola Colantoni
La voglia di scappare, di chiudere gli occhi e inventare il presente, assaliva Santoro Pasquarelli ogni mattina, quando posava la mano sulla maniglia del portone. Un senso profondo di nausea dolciastra gli saliva dallo stomaco come uno spruzzo di acqua marina contro uno scoglio.
La serratura produsse il solito rumore secco, le scale, la vecchia puttana del primo piano, ancora scale, strada.
Mani volti cappotti occhi, gli andarono incontro, lo travolsero, ma il suo passo singhiozzante da poliomielitico e la sua costituzione minuta non gli consentivano di sfuggire a quella valanga umana che affollava ogni mattina la banchina della metropolitana.
Da questo scontro quotidiano usciva sempre sgualcito nel corpo e nell’anima.
Non sapeva dire con assoluta chiarezza cosa lo disgustasse della sua esistenza, la solitudine, il lavoro inutile da impiegato pubblico, la sua condizione fisica da lumaca ballerina, sentiva soltanto un disagio sottile e costante, ma tanto sottile che a volte spariva, nascosto forse in qualche piega periferica della sua mente. Poi, così come era apparentemente scomparso, il filo del disagio riaffiorava in superficie, tornando a tessere una trama leggera e opprimente che lo intrappolava non consentendogli pensieri autonomi.
Il lavoro gli era stato praticamente imposto dai genitori, subito dopo il diploma e lui lo aveva accettato pacatamente, come del resto pacatamente aveva accettato tutte le altre imposizioni.
Poi il padre era morto. All’improvviso.
Se ne era andato in modo discreto, come sua abitudine, durante il sonno.
Ricordava solo poche lacrime, versate dalla madre su un fazzoletto di lino bianco, ma anche quelle furono discrete, silenziose e soprattutto brevi, durarono appena un giorno, accompagnarono la cerimonia funebre e poi si asciugarono dagli occhi grigi. Subito dopo tornò ad avere l’espressione chiusa e distante con la quale compariva in tutte le fotografie che la ritraevano e in tutti i suoi ricordi di bambino. Vissero insieme per qualche anno ancora, poi morì anche lei, lasciandolo completamente solo, senza parenti e amici. Solo con il suo lavoro.
Odiava tutto di quel lavoro. Le scale sudice piene di mozziconi, i corridoi angusti senza luce, ritmati da piccole porte bianche che consentivano l’accesso a piccoli asfissianti uffici zeppi di mobili vecchissimi e polverosi.
Odiava le carte inutili prodotte a chili ogni giorno e poi abbandonate negli scaffali o nei cestini, i visi irritati e le voci aspre dei suoi colleghi sempre falsamente impegnati in improrogabili lavori inesistenti. L’aria stagnante di anni, i vetri sporchi, l’incompetenza, la superficialità.
Le sue giornate erano ormai caratterizzate da furiosi rancori mal celati, assurdi progetti di omicidi ai danni dei superiori e poi volti, migliaia di volti grotteschi e ghignanti che lo colpivano di giorno e di notte, senza dargli più tregua.
Si fermò davanti l’ufficio della Dr.ssa Ianni, la bionda culona dalle mammelle autunnali, bussò con decisione e rimase in attesa di un “avanti” gracchiante che non arrivò.
Bussò ancora. Niente.
Fantasticò allora che fosse morta e che giacesse abbandonata sulla poltrona di pelle nera, ma aprendo lentamente la porta vide che sulla poltrona dirigenziale con schienale reclinabile c’era solo un orrendo golfino. Deluso posò i documenti da firmare sulla scrivania e si girò per uscire, ma il suo sguardo fu attratto da una gracile pianta di un verde sbiadito che penzolava come un impiccato da uno scaffale carico di fogli.
Non l’aveva mai notata prima di allora. Mostrava una delicatezza disarmante che la faceva apparire quasi intimidita in mezzo a quelle montagne artificiali di carte polverose.
Gli salirono lacrime nel vederla. Uscì di corsa e si chiuse velocemente nel suo ufficio.
I giorni successivi furono estenuanti, qualsiasi cosa facesse la pianta era sempre nella sua mente che lo seguiva, lo precedeva, lo incalzava.
Una pianta, era soltanto una pianta, ma quel vegetale era diventato sinonimo di ingiustizia, difesa dei diritti, lotta contro i soprusi e soprattutto distruzione dei capi, qualsiasi tipo di capo, specialmente il suo.
Dopo tre giorni di sofferenza, una mattina, durante la pausa caffè, entrò nell’ufficio della Dr.ssa Ianni e rubò il vaso. Chiuso nel suo ufficio l’abbracciò quasi come un neonato.
Alle due meno un quarto, dopo un’attesa estenuante, uscì trafelato dal palazzo, con la pianta nascosta in un fascio di quotidiani. Alla stazione della metropolitana lasciò passare diversi treni che trasportavano folle esasperate di bestiame umano perchè la pianta non avrebbe mai resistito a quell’assalto.
Era venerdì, lo aspettavano due giorni di straordinaria solitudine con la sua pianta.
Trascorse questo periodo dentro casa, tranne una piccola fuga dal fioraio dove comprò materiale da giardinaggio e un manuale per piante d’appartamento. Trovò anche la sua, una fittonia argyrineura, la riconobbe dalla fotografia, con le foglie ovali di un verde brillante, striato di sottili venature bianche, ma la piccola pianta che aveva vicino, posta sulla mensola del soggiorno, era solo un pallido ricordo dell’esemplare vigoroso e brillante che mostrava la foto del libro.
La guardava con fare protettivo, la accarezzava, le sorrideva parlandole dolcemente, ma la pianta era sola, doveva procurarle compagnia.
Fu soltanto andando in ufficio la mattina seguente che ebbe l’idea. Liberare dagli scaffali polverosi degli uffici tutte le piante in agonia.
Entrò nel palazzo con un atteggiamento più sicuro del solito, anche il suo passo risultava meno incerto, meno strascicato. Si chiuse nella sua stanza come tutte le mattine, ma quel giorno non avvertì, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, il solito senso di oppressione.
La sua stanzetta, prima soffocante prigione, era diventata ora una sicura trincea, luogo da dove partire per sferrare l’attacco al mondo, e il mondo da distruggere, in quel momento, era costituito solo dai suoi odiati colleghi.
Nei giorni successivi studiò la mappa dell’intero edificio. Piano per piano individuò la collocazione precisa di tutti gli uffici. Con varie scuse durante la settimana si intrufolò nelle stanze dei colleghi, e mentre loro analizzavano le insulse carte che portava con sé come diversivo, lui si guardò intorno e memorizzò con estrema attenzione la posizione precisa dei vasi. Si trattava sempre di creature raggrinzite, cariche di polvere e intristite da un’esistenza al limite del possibile.
Finalmente un lunedì mattina si sentì pronto ad iniziare la sua missione e decise di cominciare dall’ufficio del Dr. Carusi.
Angelo Carusi era un uomo grasso e calvo con un aspetto da buddha svizzero, pelle molle e sempre sudaticcia, pancia voluminosa sorretta da gambe corte e apparentemente instabili e radi capelli biondo cenere. Era uno dei funzionari più odiati.
Carusi si muoveva nell’ufficio come un grasso porco nel fango, completamente a suo agio si fregava le mani sempre in attesa di qualche nuova preda da maltrattare e Pasquarelli era senz’altro una delle sue preferite. Lo vessava con richieste impossibili da soddisfare, lo stuzzicava pubblicamente con insulti meschini e ingiusti ai quali Santoro aveva sempre preferito non rispondere, ma adesso non ce la faceva più a sopportare e decise di passare all’azione, come un insospettabile eroe dei fumetti.
In quella settimana rubò una dopo l’altra le piante dell’ufficio di Carusi che non si accorse della sparizione se non dopo molti giorni, quando ormai i furti si erano moltiplicati e avevano destato la curiosità di tutto l’edificio.
Nei due mesi successivi Santoro riuscì a eseguire una totale e sistematica spoliazione delle piante presenti nell’intero fabbricato. Colpì indistintamente tutti gli impiegati, dal rude usciere Colarossi che ogni mattina lo accoglieva con un inopportuno e sgraziato, “’giorno Pasquarè. Su, su, veloce che sei il primo. A fine anno ti diamo la medaglia”; al primo dirigente dr. Bertini, che come unica colpa aveva solo quella di avere piccoli occhi da topo e di lavorare nel suo stesso ufficio.
Fu rapinata la deliziosa e raffinata dott.ssa Liliana Preziosi, moglie e madre irreprensibile, impiegata modello, unica collega che lo riscaldava quotidianamente con un lieve e tenero sorriso mattutino mentre attraversava leggera i corridoi per recarsi nell’ufficio del dr. Nicola Di Iorio, suo focoso e segreto amante, non pensando, i due imbecilli, che la loro relazione fosse ormai nota a tutti i colleghi e anche a qualche utente esterno.
Fu rapinato il signor Morricone, impiegato storico ormai prossimo alla pensione, detestato da tutti per la cattiva abitudine di liberarsi senza discrezione e in ogni luogo del catarro che gli stagnava nei polmoni a causa di una bronchite cronica.
Fu depredata la vecchia segretaria Dolores Consales, che a parte il nome esotico da ballerina di sevillana andalusa, di spagnolo e di esotico non aveva proprio niente, al contrario, segaligna e rigida come un palo di scopa ormai in disuso da anni, si muoveva con gesti secchi e occhi indagatori propri delle vecchie zitelle senza destino.
E così uno dopo l’altro tutti furono colpiti dalla furia di quest’angelo giustiziere.
Il dr. Piscitelli, il signor Verrocchi, la signora Zanetti e la dr.ssa Meliorati, i coniugi Robusti, i cugini Alessandrini e gli addetti alle fotocopie Zorzi, Marrama e Mampieri, solo per citarne alcuni, dato che l’elenco sarebbe lunghissimo.
Ma se l’intero palazzo destinato ad uffici era ormai privo di ogni forma di vita vegetale, il suo appartamento si era trasformato in una unica, grande e fresca foresta tropicale. C’erano piante dovunque, compresi i balconi, dove aveva sistemato quelle da esterno e il bagno, dove aveva collocato i vegetali bisognosi di maggior umidità. Tubi neri e sottili correvano come una ragnatela per tutta la casa, assicurando alle sue amate creature la giusta dose d’acqua giornaliera. Docce, doccini e rubinetti spuntavano da dietro letti e poltrone, ormai ridotti a un ammasso spugnoso coperto di muffe.
Fari e stufe inondavano la camera da letto di una luce vivida e di un tepore avvolgente da crociera caraibica necessari per le bauhinie corniculate e per la androlepsis skinneri del vecchio Carusi.
In questa foresta, intimo e accogliente rifugio, Pasquarelli si muoveva in totale agio, passando leggero tra gli arbusti legnosi e le tenere foglie, quasi dimentico della sua rigida gambetta.
Nelle prime settimane aveva mantenuto un’inflessibile immagine da grigio impiegato statale. Sfuggente e silenzioso in ufficio per non destare sospetti, formale e composto in casa per una consueta abitudine, nei mesi successivi si era trasformato completamente diventando tutt’uno con la sua foresta casalinga. Si aggirava semi-nudo e scalzo tra le piante, mangiando per terra ai piedi di una musa ornata e dormendo su un’amaca che aveva fissato al muro vicino a un castanospermum australe.
Con il tempo si era fatto crescere i capelli e la barba fino alla base del collo e anche le sue unghie non erano più curate come in passato, lavorando quotidianamente con la terra. Lentamente l’abito scuro era stato sostituito da jeans, ampia maglietta e sandali di cuoio, ma il suo timore di destare sospetti tra i colleghi a causa della sua trasformazione si rivelò infondato, perché continuava ad essere un individuo insignificante agli occhi di tutti. E questo era senz’altro un vantaggio.
Giovedì 22 maggio Santoro Pasquarelli entrò con passo ‘a ritmo alterno’ nella stanza del dr. Bertini e depose sulla scrivania una domanda di ferie arretrate. Giorni 62. Il dr. Aldo Bertini lo guardò con i suoi piccoli occhi da topo, e finalmente lo vide, per la prima volta, veramente. E solo in quel momento si accorse dei cambiamenti. Santoro Pasquarelli era il ladro dal pollice verde.
Così era stato chiamato il ladro da un giornalista di un settimanale di provincia che aveva seguito il caso dopo che la dott.ssa Ianni, colta da un leggero malore per aver scoperto il furto del patrimonio vegetale, aveva creato un putiferio in tutto lo stabile con le sue grida da vecchia gallina in odor di brodo. Non erano servite a tranquillizzarla le tenere parole di Iole Servillo, impiegata addetta al caffè, non certo per ordine di servizio ministeriale, ma per conveniente assegnazione interna, non erano bastate a farla tacere le imprecazioni sibilate in un orecchio dal sudatissimo Carusi né le minacce di una lettera di richiamo proferite dal dr. Bertini; ma solo, dopo ore di teatro avanguardista, la visione di una penna bic e di un taccuino nelle mani grassocce di Ercole De Simone, mediocre e onnipresente giornalista del settimanale Vivere in provincia.
E quindi la notizia dei numerosi furti, che i dirigenti avevano deciso di non far uscire al di fuori dell’ufficio, era dilagata come circoscritta e ampia macchia di olio sulla superficie di un placido mare.
E i corridoi dell’edificio si erano immediatamente trasformati in un set televisivo per tutti gli impiegati affamati di notorietà e facile successo. In ogni angolo disponibile giovani giornalisti d’assalto con cameraman al seguito intervistavano improbabili Philip Marlowe desiderosi di rivelare la loro personale versione dell’accaduto.
Durante tutto quel clamore Santoro Pasquarelli se ne stette tranquillo al riparo della sua foresta. Usciva solo per comprare terriccio, concime e pasti frugali per sé.
All’interno della casa l’atmosfera era soprannaturale. Nessun mobile. Pochi rumori, delle foglie strofinate dal vento che passava attraverso finestre e balconi, dell’acqua che usciva lieve nebulizzata dai soffitti e degli uccelli che avevano nidificato tra i rami.
Solo alla luce era permesso occupare lo spazio tra le verdi creature.
E Santoro era il dio di questo eden. Sollevava le veneziane la mattina per far entrare l’aria fresca, le abbassava al primo caldo, quando il sole era diventato rovente, regolava i doccini, bagnava la terra, concimava, potava, sostituiva i vasi quando l’apparato radicale necessitava di più spazio, nutriva gli uccelli. Viveva in uno stato di perfetto appagamento. Nudo, capelli e barba incolti, camminava silenzioso e leggero tra le radici che, rotti gli argini di terracotta, si allungavano sinuose sul tappeto di erba e muschio che ormai copriva il pavimento e non trovando ostacoli a una vigorosa avanzata, cominciavano a insinuarsi nelle fughe delle mattonelle.
La mattina del 24 luglio, al termine del periodo di ferie, Santoro decise che non poteva più tornare indietro. La vita precedente a questo punto non esisteva più. Neanche un ricordo.
La sua esistenza coincideva con quel verde bozzolo autarchico che aveva scelto come ventre di certezze nel quale vivere. E in quel ventre materno si barricò.
In ufficio nessuno si chiese che fine avesse fatto Santoro Pasquarelli. Le carte continuavano ad aumentare sulla sua scrivania, la polvere si depositava ormai su tutte le superfici della stanza, ma ogni mattina l’impiegato addetto allo smistamento della posta entrava meccanicamente nel suo ufficio e gettava documenti su altri documenti già presenti sul tavolo e usciva.
Lo trovarono una mattina di primavera, dopo le ripetute lamentele da parte dei condomini per infiltrazioni d’acqua, radici nelle tubature e uno strano odore di umidità che proveniva dall’appartamento B3. I vigili del fuoco impiegarono ore per aprire la porta d’ingresso prigioniera di radici vigorose e dopo un primo momento di umano smarrimento, alla vista di una foresta pluviale cresciuta in un appartamento di città, avanzarono come moderni esploratori brandendo asce e cesoie.
Lo trovarono sereno disteso su un letto di muschio e licheni. Braccia abbandonate lungo il corpo, volto luminoso, uno sguardo d’altrove, bonificato da una pace interiore.
Sorrise lievemente e li seguì docile.