La spada sopra il camino

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La spada
sopra il camino

di Salvatore Bonventre

 

 

Nella nostra casa a Roccaberardi, tra le montagne del Cicolano, c’era una spada appesa sopra il camino. Ma non era una spada vera, con una lama lucente di metallo. No. Era una spada di legno, intagliata da un falegname del paese. L’aveva sistemata lì, in bella vista, mio zio Ascanio. “L’ho ritrovata nella stalla, chissà come ci era finita”, diceva, “questa era di papà quando faceva il Turco”. Ero adolescente e non avevo mai visto spade fatte in quel modo. Studiavo a Roma in un liceo classico e spesso, almeno due volte al mese, andavamo a Roccaberardi, che era il paese dove era nata mia madre. Tutti lo chiamavano la Rocca quel villaggio e così era conosciuto. La mia famiglia era della Rocca. Ci trascorrevamo le vacanze di Natale, di Pasqua e tutte le vacanze estive. Ci andavamo pure per seminare e recavare(1) le patate e per la raccolta delle castagne. Ci stavo bene. Eppure non sapevo che cosa fosse quella spada e perché l’avessero fabbricata. Ogni volta che tornavamo alla Rocca la guardavo, la riguardavo e me lo domandavo. Chiesi infine a mia madre.
“Non l’hai sentito zio Ascanio? Quella era la spada che usava tuo nonno quando faceva il Turco”, mi rispose.
“E che cos’è il Turco?”, le chiesi ancora.
“Papà si vestiva da Turco a Carnevale.”
“E tu te lo ricordi?”
“Certo che me lo ricordo. Si vestivano ogni anno, lui e quasi tutti gli altri uomini qui della Rocca. ‘Esso i zanni, esso i mascari(2), urlavamo noi bambini quando arrivavano. Ricordo che il primo che arrivava era sempre Federicò di Ospanesco, un paese qui vicino; era vestito tutto di bianco e portava attaccate alla cintura tante campane. Di quelle campane che si mettono alle vacche per sentirle da lontano quando sono al pascolo. Era un uomo grande e corpulento e scrollava forte tutte quelle campane e portava una spada come quella di papà. Me lo ricordo quando arrivava davanti casa nostra. Noi bambini avevamo paura”.
“E che altro facevano?”, domandai attratto dal racconto.
“Discutevano. Papà discuteva sempre con zio Pasquale. Discutevano con le parole. ‘Questo castello l’ho conquistato io’, diceva uno. ‘No questo castello l’ho conquistato io’, rispondeva l’altro. Una specie di guerra. Una guerra con le parole, appunto.”
“E poi?”, sollecitai ancora io sempre più attratto.
“E poi non lo so. Ero bambina e adesso devo finire di cucinare.” Era così mia madre, raccontava ma a un certo punto tornava a dare priorità alle faccende domestiche. Non mi disse altro infatti.
Andai a sedermi davanti il fuoco del camino e riguardai la spada di legno appesa lì sopra. Era collegata a qualcosa che accadeva a Carnevale, dunque. “Mamma ha detto che discutevano per il castello. Ma cosa vuol dire? E cos’erano gli zanni?”, pensavo tra me e me.
Decisi di andare a trovare le persone anziane alle quali aveva fatto riferimento mia madre. Federicò di Ospanesco morì in quei giorni e non feci a tempo. Andai a trovare Pasquale, che era un mio prozio. Quando gli accennai di zanni e castelli, gli occhi dell’anziano s’illuminarono, si scrollò le spalle, si schiarì la voce e mi spiegò tutto. “Ci vestivamo ogni anno a Carnevale. Ogni paese faceva una compagnia di 15-20 persone. Ogni persona aveva un ruolo, una maschera. C’era il Turco, che lo faceva tuo nonno. Comandava la compagnia ed era vestito tutto di rosso con un lungo coppolone. E poi c’era il Guerriere, che era il comandante in seconda ed era vestito tutto di verde. Tante volte il Guerriere l’ho fatto io. E poi c’era lo Zannone, quello vestito di bianco con le campane che t’ha raccontato tua madre e lo faceva Federicò. E poi la Zingara e il Romitu che chiedevano alle famiglie salsicce e uova. E poi c’era uno che faceva il Dottore e uno che faceva il Prete. Dovevano fare la parte di un dottore e un prete veri. Era Carnevale insomma. Ah, poi c’era uno tutto vestito di edera che faceva l’Orso. Era sorvegliato da un Cacciatore perché aggrediva le persone che incontrava per mettergli paura ”.
“Ma che facevate dopo che vi eravate mascherati?”, gli domandi io che lo ascoltavo sorpreso.
“Andavamo nei paesi vicini, qui a Castelluccio, oppure ai paesi della Baronia o a Tonnicoda…erano quelli i castelli. Se incontravamo una compagnia di un altro paese, dovevamo combattere.”
“E come combattevate?”
“Con le parole, a rima. Chi rimaneva senza risposta, perdeva. Per esempio, una volta andammo a S. Lucia. Eh, lì c’era uno bravo a fare il Turco. Ma anche io e tuo nonno avevamo favella. Allora questo Turco di S. Lucia ci disse: ‘Tu che sei poeta, poetaro… dimmi, quante formiche ci stanno in un formicaro?’. E tuo nonno svelto gli rispose: ‘Tu che sei poeta di questo mondo, mettimele in questa mano che te le conto’. Fu un bel battifondo(3). E vincemmo noi e così potemmo fare il giro delle case del paese.”
“E perché facevate il giro delle case?”, lo interrogai nuovamente.
“Ogni famiglia offriva un rinfresco, era come il bottino del castello. Mangiavamo, bevevamo vino. Ballavamo. C’era uno che suonava l’organetto e ballavamo dentro le case. E alla fine ringraziavamo con la lascita, con un augurio in rima cioè, la famiglia che ci aveva ospitato. Eh, era bello. Un bel Carnevale, non come quelli che fanno ora”, affermò il vecchio con tono di rimpianto.
“E che altro dicevate quando combattevate a rima?”, cercai di approfondire.
“Parlavamo di Rizieri, di Fioravanti…storie di guerrieri antichi, di paladini. Le leggevamo la sera e poi le ripetevamo a Carnevale.”
“Come? Le leggevate la sera? Dove le leggevate?”.
“Le leggevamo nei libri… I Reali di Francia, il Guerin Meschino…nei libri. La sera ci riunivamo e stavamo tutti ammucchiati a ascoltare quelle storie. A me piacevano tanto. Ricordo che quando feci il militare me li comprai.”
I racconti di mia madre e di zio Pasquale mi avevano appassionato. Ecco spiegata la spada di legno sopra il camino. Gli zanni, il carnevale, la conquista del castello con le rime, l’orso, la zingara, la lettura serale…Incredibile. Un mondo. Alla Rocca c’era un mondo.
Tornai a Roma. Ripensai al libro del quale mi aveva parlato zio Pasquale. I Reali di Francia. Un titolo mai sentito. A scuola non l’avevo mai studiato. Nell’antologia del liceo non c’era. Strano. “Che libro sarà?”, rimuginai. Cercai allora nell’Enciclopedia Treccani e lo trovai. Era un romanzo in volgare del XV secolo scritto dal cantastorie Andrea da Barberino. “Una specie d’introduzione generale al ciclo carolingio, a delizia e svago del popolo, specialmente delle campagne”, spiegava la voce enciclopedica. Allora era vero. Era quello il romanzo che leggevano la sera alla Rocca. Nessuno però in paese possedeva più questo libro. E nemmeno nei paesi vicini nessuno ce lo aveva più. E perché, poi, nessuno si era mascherato più a Carnevale da tanti anni? Lo volli chiedere a zio Ascanio. D’altra parte, era stato lui a ritrovare in cantina e ad appendere quella spada. “Anch’io mi sono vestito quando era ragazzo. Facevo il Cacciatore. Era il 1958. Lo ricordo perché avevo diciotto anni e dopo pochi mesi partii per il militare.”
“E chi altri si mascherò con te quella volta?”, domandai per fargli aggiungere particolari.
“Mah, c’eravamo tutti”, interruppe zio Giovanni, che era il fratello di mia madre e di Zio Ascanio e ci stava ascoltando. “Noi due e anche i nostri cugini Claudio e Marco. E poi gli altri ragazzi del paese. Tutti, per farla breve. Andammo a Tonnicoda.”
“Già, e te lo ricordi quello che accadde?”, disse sorridendo zio Ascanio a Zio Giovanni.
“Certo che me lo ricordo! Claudio, che faceva lo zannone, entrò per primo tra le strade del paese scuotendo le campane, incontrò una fila di muli con i basti caricati sulla schiena e le spaventò. I muli cominciarono a scalciare come matti e i basti si sciolsero, caddero per terra e i muli ci passarono sopra. Tutti i basti si sfasciarono! Un disastro. Arrivò Santino, il padrone dei muli, e volle essere risarcito a tutti i costi. Dovemmo mettere 50 lire a testa.”, rivelò zio Giovanni.
“Già, ma non hai detto il resto…”, proseguì zio Ascanio, “dopo continuammo a fare Carnevale e girammo tutte le case del paese. Una volta davanti alla casa del padrone dei muli, Claudio gli fece questa lascita per dispetto: ‘E al signor Santino gli voglio lasciare, altri cento basti da potere sfasciare!”
“Che poi tornaste alla Rocca uno alla volta per quanto eravate ubriachi, non lo dite però”, intervenne allora mia madre che rammentava il fatto. Non capivo però perché non avessero mai raccontato quegli episodi fino ad allora.
“Dopo non ci siamo vestiti più”, conclusero insieme zio Ascanio e zio Giovanni, “quasi tutti infatti negli anni seguenti andammo via dalla Rocca per trovare lavoro. Molti di noi si sono arruolati. Chi nei Carabinieri, chi in Marina, chi nell’Esercito…e Carnevale non l’abbiamo fatto più.”
“Rifacciamolo ora!”, esclamai allora io. Mi guardarono entrambi con occhi concentrati, quasi si aspettassero che gli facessi quell’invito.
“Bisogna organizzarsi bene, se lo dobbiamo fare davvero”, affermò serio zio Giovanni. “Io rifaccio il Cacciatore”, dichiarò disinvolto zio Ascanio.
Quel fine settimana eravamo tornati alla Rocca per piantare le patate. Mentre stavo scavando le fosse nel terreno per mettere la semina, vidi zio Pasquale che scendeva lungo la strada che portava all’orto. Si affacciò sopra al muro di sassi che delimitava il campo e mi chiamò: “Lascia perdere ‘e somentà(4) le patate, vieni con me, che ti devo dare una cosa.”
Lasciai la zappa, risalii verso la strada e lo raggiunsi.
“Cosa c’è zio?”, gli domandai.
Senza parlare, mi fece capire di seguirlo e mi condusse all’interno di una cantina poco lontana. Frugò un attimo in una mensola di un angolo buio e ne trasse fuori qualcosa. “Ecco, guarda questo. Era il mio cappello da Guerriere.” Era una specie di elmo artigianale con un uncino sopra, fatto di vimini intrecciato e ricoperto di stoffa verde. Il vecchio l’aveva tenuto riposto per tutti quegli anni. Me lo diede e subito mi apostrofò: “Prendilo ma non lo perdere!”, “Grazie zio!”, dissi mettendogli una mano sulla spalla e uscendo dalla cantina.
Nei mesi seguenti, cercai di coinvolgere i miei amici della Rocca nella realizzazione di quel Carnevale. Ne avevo tanti di amici. C’erano i miei cugini Luca e Stefano con i quali condividevo affetti e memorie familiari. C’erano Luigi e Quinto, due fratelli con i quali durante l’infanzia avevo passato moltissime giornate pascolando il bestiame fuori dal paese e ai quali ero legato come un fratello. C’era Daniele, con il quale condividevo passioni, letture e canzoni. Eravamo amici e non fu difficile convincerli. Tutti avrebbero partecipato. Tra l’altro, con Daniele e mio cugino Luca avevamo iniziato a fare delle ricerche sulla storia della Rocca. Per questo motivo ogni tanto ci recavamo negli archivi di stato per consultare catasti e altri documenti. Un giorno ci trovavamo a Rieti e stavamo aspettando che ci portassero il materiale richiesto. Passeggiavo per la sala canterellando sotto voce e scorrendo i titoli dei libri esposti nella biblioteca a scaffale aperto, quando la mia attenzione cadde su un volume in particolare. Si chiamava I Paladini di San Carneale e trattava il tema degli zanni nelle danze armate carnevalesche del Reatino. Lo sfogliai rapidamente e mi fermai al capitolo che riguardava il Cicolano. Con meraviglia vidi che vi era citato anche il nome di mio nonno. Anni prima, un antropologo aveva studiato quella tradizione popolare intervistando diversi anziani e uno di questi aveva menzionato mio nonno. Tornammo in paese e comunicammo la notizia. Nessuno aveva sentito parlare di quel testo e fu fuori del comune leggervi il nome di un familiare. Mi accorsi anche che mia madre, al sentir nominare il padre, si era nascostamente commossa.
Nel frattempo, l’organizzazione del Carnevale procedeva. Si era decisa anche la data: l’ultimo sabato di febbraio. Tutti furono avvisati a voce o telefonicamente. C’era chi preparava per suo conto nuove spade e cappelli e c’era chi cuciva nuovi vestiti. Mia madre confezionò per zio Giovanni, che avrebbe impersonato il Turco, un bellissimo vestito rosso. Mio padre realizzò per il cognato un lungo cappello a cono. Anch’ io mi preparai al meglio. Scovai finalmente in una libreria dell’usato di Roma un’edizione de I Reali di Francia. Lo lessi con avidità da cima a fondo e imparai le gesta cavalleresche di Rizieri, Fioravanti e Buovo d’Antona. Avevo scelto di essere il Guerriere, come zio Pasquale. La data si avvicinava e la settimana precedente andai a trovare Daniele per concordare gli ultimi dettagli. C’era molta attesa e suo padre Gino aveva addirittura chiamato per l’occasione una banda musicale. Uscito dalla casa di Daniele, fui fermato da Fioravanti. Era un amico di famiglia che veniva spesso con noi per vangare il terreno dove piantare le patate o per sommonnare(5) le castagne. Mi disse che lui avrebbe fatto il Romitu perché lo aveva già fatto quando era giovane. Un po’ come zio Ascanio che voleva fare il Cacciatore. Gli risposi che non c’erano problemi. Mi salutò e mentre si allontanava collegai il suo nome di battesimo a quello del paladino dei cantastorie. “Forse i genitori lo hanno chiamato così perché avevano sentito quel nome durante la lettura serale”, riflettei per la prima volta da quando lo conoscevo.
Venne infine quell’ultimo sabato di febbraio. Ci eravamo dati appuntamento per pranzo a casa nostra. Mia madre aveva voluto infatti cucinare per la compagnia ravioli ripieni di ricotta di semi di canapa utile pistati. “A Carnevale mangiavamo questo piatto.”, aveva affermato. E visto che la canapa nessuno la coltivava più, aveva acquistato i semi in erboristeria, li aveva lavorati e con il condimento ottenuto aveva farcito i ravioli. I ravioli con lu cannaicciu, li chiamava.
Li gustammo con appetito, accompagnandoli con un bel po’ di bicchieri di vino e dopo pranzo ci vestimmo. Luca, che come me avrebbe fatto il Guerriere, prese la spada sopra il camino, Daniele indossò le campane per fare lo Zannone, il mio amico Luigi si agghindò da Zingara, zio Ascanio si aggirava dentro casa con Quinto ricoperto di edera selvatica e legato a una fune. Giunse anche Fioravanti, impeccabile Romitu, con indosso un cappottaccio, il viso tinto di cenere e una grossa forca ed un canestro nelle mani. Arrivò anche Gaetano, un vecchio della Rocca di circa 90 anni cui spettava fare il Dottore. Portava attaccata sul viso una folta barba nera da farlo sembrare la copia sputata dei Dottori di un Carnevale italiano del Settecento descritti da Goethe. La giornata era tersa e serena e, come d’accordo, ci dividemmo in due gruppi: una volta giunti in piazza, dove ci attendeva la banda, avremmo dato vita a un battifondo per la conquista del castello.
E il battifondo ci fu. Zio Giovanni come Turco recitò con voce stentorea una fluente predica di conquista. Sembrava quasi un attore di teatro. Dopo che i due gruppi simularono la pace baciando le spade, la banda iniziò a suonare e cominciammo il giro delle case del paese. Ogni famiglia della Rocca aveva preparato un rinfresco per la compagnia. A ogni tappa mangiammo dolci o pizze e bevemmo uno o più bicchieri di vino. E ad ogni famiglia dedicammo una lascita. “A questa famiglia gli voglio lasciare, due villini sulla riva del mare!”, declamò zio Giovanni a casa di Gino. “Alla signora Pierina, lascio una collana da regina!”, dissi io per la moglie di zio Pasquale.
Da un paese vicino ci aveva raggiunti un suonatore d’organetto e ballammo la saltarella per ore. Scese la sera e noi eravamo completamente ubriachi. Sostammo sotto il segnale stradale con la scritta Roccaberardi e Luigi sollevò Luca da terra e ricaddero poi entrambi di peso. Dopo, sinceramente, non ricordo più nulla. Pare che alcuni vestiti siano stati ritrovati nei castagneti. La spada di legno, purtroppo, la ritrovammo in due pezzi. Forse si era rotta con il capitombolo di Luca e Luigi. Zio Ascanio rimproverò me e mio cugino ma poi, guardando verso il paese, disse: “Beh, la spada si è spezzata, ma abbiamo fatto bene a staccarla da sopra il camino.”

 

 

(1) Vocabolo in dialetto Cicolano che significa tirare fuori, raccogliere.
(2) Tradotto in italiano: ecco gli zanni, ecco le maschere.
(3) Vocabolo in dialetto Cicolano da intendere come duello a parole.
(4) Vocabolo in dialetto Cicolano che significa seminare.
(5) Voce dialettale che nel Cicolano indica la ripulitura del sottobosco, dal latino sub mondare, pulire sotto.

 

 

 

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