Cascine, boschi, rittani

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Terzo classificato

Cascine, boschi, rittani

di Luigi Vallebona

 

 

Mio nonno si chiamava Giacomo. Ma per tutti era “il Passerino”. Come suo padre, suo nonno. E suo bisnonno. E i suoi fratelli. Destinati a portare il nome della cascina in cui erano nati, la “Passerina”, qualche giornata di terra strappata ai boschi sulle colline di Cairo Montenotte. Patate, castagne, fagioli, agricoltura povera, da rompersi la schiena nei campi da una luce all’altra. Ma lui, l’ultimo “Passerino”, il destino l’aveva voluto cambiare, per la sua famiglia prima ancora che per sé, seguendo l’acqua del rittano(1) che scende a valle verso la Bormida e la grande fabbrica chimica Montecatini. E pure qualche settimana di lavoro all’ACNA di Cengio, adagiata sull’ansa dell’altra Bormida, quella color di vino e odor di fenolo. Là lo pagavano meglio, ma lui aveva preferito tornare alla Montecatini dopo che un giorno aveva visto la sua pipì colorarsi di viola. E anche lì, alla Montecatini, per 40 anni avevano continuato a chiamarlo “Passerino”, sebbene ormai la sua vita avesse cambiato ritmo, non più legato alle stagioni e alla durata della luce del giorno, ma all’alternarsi dei turni, da 6 a 2, da 2 a 10, la notte. Ma, nonostante lo stordimento e la stanchezza che quasi sempre lo accompagnava dopo il turno di lavoro in fabbrica, i campi non smise mai di coltivarli, finché abitò la “Passerina”. Poi, si rese conto che era troppa fatica salire e scendere a piedi ogni giorno la strada del rittano e, con i risparmi dei primi vent’anni di Montecatini, lasciò la cascina e comprò un appartamento nelle case popolari costruite vicino alla fabbrica in frazione “Passeggeri”, tra la Statale e la ferrovia. Da lì si sentiva la sirena dello stabilimento ed era poca fatica seguire la fila degli operai in bicicletta sul rettilineo verso le ciminiere. Va bene la casa vicino alla fabbrica, ma lui il legame con la terra e i suoi ritmi non l’aveva voluto perdere. Dietro casa, nei terreni di nessuno ai lati della ferrovia, teneva sempre un orto e guardava le lune per seminare, innestare le piante, raccogliere fagiolini e pomodori. “Passerino” ancora e sempre, anche senza la sua “Passerina”. E anche quando, dopo 40 anni di lavoro, la Montecatini gli aveva dato la medaglia d’oro di fedeltà ed era andato in pensione, l’orto non smise mai di coltivarlo e andava perfino a vangare quello degli amici o a dare consigli sul periodo migliore, secondo le lune, per seminare le carote o le cipolle. Lo ricordo raccogliere le patate con un colpo di zappa preciso, accompagnato da un gemito e un movimento di richiamo dell’attrezzo che sollevava le patate senza infilzarne neppure una. E dava a me bambino la zappa, e mi insegnava, e scuoteva la testa quando immancabilmente la patata più grossa e più bella rimaneva infilzata in un dente. Le generazioni dopo la sua hanno lavorato in fabbrica e basta, e quelle ancora dopo, come la mia, hanno potuto studiare alle Superiori e all’Università, prendendo altre strade. Oggi, nella valle le fabbriche chiudono, qualcuno ritorna alle cascine e alla terra, qualcuno si è messo a rifare formaggette e giuncata e io, che ho studiato le lingue straniere e non sono mai stato né contadino né operaio, ho risalito il rittano verso la vecchia “Passerina” a cercare nomi e, attraverso i nomi, radici.

Radici – pensavo. Gli uomini non sono alberi, non hanno radici. Ma hanno bisogno come del pane quotidiano di radicarsi in uno spazio e in un tempo, in una lingua e in una terra. Per questo diciamo, allo stesso modo, madre lingua e madre terra. Perché non nasciamo in un mondo disincarnato, neutro e indifferente. Nasciamo in un luogo preciso, in un paesaggio modificato da quanti ci hanno preceduto, lasciando dietro di sé tracce, sentieri, nomi. Sono le nostre prime percezioni a determinare la forma del nostro contatto col mondo, a instaurare un ritmo nei nostri sguardi e nei nostri passi. Chi ha visto da bambino tramontare il sole a occidente dietro a un crinale, anche da adulto lo vorrà veder scendere in quel modo, anche quando si troverà altrove, davanti ad altri orizzonti. Coloro che sono emigrati in passato in Argentina dalle valli della Bormida hanno avuto nostalgia di boschi in piena pampa, anche se la fame di radici li avrebbe portati a piantarne di nuove nel loro nuovo mondo, non riuscendo a sfuggire a una lacerante doppia identità e a una incerta appartenenza linguistica. E avrebbero insegnato ai loro figli nati laggiù a parlare soltanto lo spagnolo per evitare che soffrissero come loro e fare in modo che si incarnassero totalmente nella nuova terra e nel nuovo idioma. Ma, appunto, per i figli, quelle erano la lingua madre e la terra madre, ed era molto più semplice mettere lì le radici. Perché al bisogno di radici fa da contraltare la sua negazione, lo sradicamento, non solo per gli emigranti di prima generazione, ma anche per i contadini e gli operai delle nostre valli.

È cominciato quasi per caso. Avevo preso l’autostrada, non-luogo per eccellenza, che ci separa dal territorio che attraversa, lo buca con le gallerie e lo sorvola con i viadotti. Sui cartelli avevo letto nomi di bricchi(2), rittani e cascine, deportati rispetto al loro luogo originario, ridotti a segni senza significato. Il contratto che avevo implicitamente firmato prendendo il biglietto al casello era quello di non uscire dal tracciato dell’autostrada, di accontentarmi dei nomi sui cartelli e di uno sguardo di sfuggita dal finestrino.
Invece quella volta ho parcheggiato l’auto in un’area di sosta, e, dopo aver scavalcato il guardrail, mi sono addentrato a piedi nel territorio, seguendo vecchie carrarecce, antichi sentieri. Sono strade che assecondano la conformazione del terreno, tracciate con la saggezza di chi conosce ogni avvallamento e ogni corso d’acqua, e non vuole sfidare la natura, sapendo quali sono la forza dei fiumi in piena, la precarietà delle scarpate e il pericolo delle frane, specialmente in una terra scoscesa e fragile come la Liguria. Da allora ho continuato a camminare. Di crinale in crinale, di nome in nome, da un rudere di cascina a un altro, mi sono sentito spesso come un rabdomante che percepisce con il suo bastone le vene d’acqua nascoste nella profondità della terra, che risveglia i nomi andando proprio là dove i nomi sono nati, legati indissolubilmente a un luogo. Il mio intento era quello di far “cantare” di ancora i nomi, salvandoli dalla coltre di silenzio in cui erano caduti, di risvegliare la relazione che aveva legato l’uomo al territorio, prima dell’abbandono delle cascine, prima del grande sradicamento causato dall’industrializzazione e dalla successiva deindustrializzazione. Mi sembrava di aver varcato una soglia invisibile e di essere entrato in un’altra dimensione dello spazio e del tempo. Qualcuno mi attendeva su quella soglia per aiutarmi ad entrare.

Era il tempo dei funghi e delle foglie cadute. Camminavo nel bosco umido. Prima del cacciatore ho incontrato il cane, un bel setter inglese, un mattino di novembre, con la nebbia che scendeva fino alla base dei tronchi. O meglio, per primo ho udito il suono del ciuchen, il campanellino che i cani da ferma portano sul collare per permettere al cacciatore di localizzarli, nelle giornate di nebbia come quella. L’uomo aveva una cacciatora di fustagno con tante tasche. Il cane gli aveva appena riportato una beccaccia e lui l’aveva infilata nella grande tasca posteriore, dolcemente, quasi con affetto per il nobile uccello che aveva appena ucciso.

– Buongiorno – gli ho detto – ha già fatto centro questa mattina…
–Eh, sì – mi ha risposto. – Le beccacce quest’anno si sono fermate più a lungo. La neve tarda a cadere e loro restano qualche settimana in più nel bosco. Così, spesso incontrano la morte e non potranno vedere le coste dell’Africa del Nord, dove migrano per svernare quando viene il gelo.
– Ma lei non prova pena per loro?
– Sì, ma sento anch’io un richiamo, un istinto d’incontro. Mi sembra di compiere un rito, nella cattedrale del bosco, in questi giorni corti di novembre. Le beccacce dimorano presso i rittani o nelle zone acquitrinose che in dialetto chiamiamo meuje. C’è una cascina, proprio qui vicino che porta questo nome e proprio lì questa mattina ho trovato le prime tracce della beccaccia a cui ho appena sparato.
– Va a caccia di altri uccelli?
– Sì, in ottobre vado alle postazioni sullo spartiacque per la caccia agli uccelli di passo, fringuelli, storni, tordi, colombacci, merli, nei giorni di tramontana. Conosco tutti i versi che fanno gli uccelli, uno per uno. Li vuole sapere?
– Sì, mi interessa molto.
– Il merlo scuincuina quando canta scappando, ma fò ra prima quando è primavera, fò ra merlezò quando canta sottovoce e ciucia quando smette di cantare. Il tordo bzira oppure zöca. Il fringuello a volte cincina, altre fò ra bòrbazìa, altre ancora xghirisc.
– È incredibile come il dialetto sappia imitare con precisione i versi degli uccelli.
– È vero, ma sono parole che si stanno perdendo, solo noi cacciatori le conosciamo e qualche volte le insegniamo ai nostri figli.

Intanto si era chinato a raccogliere un fungo e lo aveva messo dentro una reticella e poi in una delle tante tasche della sua cacciatora.

– Vedo che va anche per funghi.
– E’ un po’ un disonore per un cacciatore, li prendo quando li vedo, senza cercarli.
– Che funghi sono?
– Sono tanti e ciascuno ha il suo nome in dialetto: garliture, ferugni, funzine, cucune, burijne, biulle, mòme, buraj trifu, tacugni, diline, laciugni, luffe, praröi, sanguigni, pinairöi. Quelli velenosi o comunque non commestibili si chiamano fròdzi, penso venga dal verbo fradzè che si usa quando una cagna o una mucca abortiscono.
– In effetti, sono funghi mancati, incompiuti, cattivi…

Il cane si era allontanato nella nebbia e si sentiva il suono del ciuchen sempre più fioco. Goccioline di pioggia scendevano piano, mute. Il cacciatore ha urlato una sola volta il nome del setter. È seguito un silenzio, poi, lentamente, il suono ha iniziato a farsi sentire sempre più forte nella nostra direzione. Quando il cane si arresta nel bosco per fare la ferma alla beccaccia, il silenzio è più lungo e profondo, precede l’attesa a cui segue lo sparo.

Era ormai iniziato l’inverno. Salivo e scendevo da un versante all’altro dei bricchi, annotando i nomi delle cascine su un taccuino e controllando la loro esposizione al sole con l’aiuto di una bussola. Erano quasi tutte esposte a solatio. Surie, Suriette, Cian del Merl: mi chiedevo il perché di quei nomi. Un giorno, mentre camminavo nel bosco evitando le chiazze di neve, nei pressi di un quadrivio, una donna mi è venuta incontro. Portava due fazzoletti: uno sul capo, di seta, appoggiato sui capelli e legato sotto il mento, l’altro in mano, un mandillo da gruppo, come dicono nel Genovesato, di tela grezza a quadri bianchi e blu. Aveva appeso la sacca con le lettere a un ramo di ontano e cercava muschio lungo le sponde dei rittani, nella terra scura sotto i cespugli di erica. Mi ha salutato con un cenno del capo.

– Ho appena finito il giro delle cascine – mi ha detto – e adesso ho il tempo, prima che faccia buio, di raccogliere la bura per il presepe. Quella che cresce sotto i faggi è morbida come un cuscino. Sullo strato di bura più spesso appoggerò la statuina di Gesù Bambino, la notte di Natale.
– Mi può dire i nomi delle cascine?
– Sono tante, e tutte abitate. Conosco ogni famiglia e mi basta dare un’occhiata agli indirizzi sulle buste ogni mattina all’Ufficio Postale per capire il giro che dovrò fare quel giorno. Ci sarà da camminare tanto, su e giù per le carrarecce nel bosco, per consegnare la posta a tutti. La cascina più lontana è la “Cà del Tasso”, in cima al rittano di Cravarezza. Più in basso ci sono la “Cà del Marto”, “del Lampo”, “del Vento”.
– Sono nomi curiosi, legati agli animali e ai fenomeni naturali.
– Chissà, qualcuno avrà visto una martora o un tasso vicino alla cascina in un giorno lontano e il nome è rimasto per sempre legato a quei muri.
– Forse vicino alla cascina è caduto un lampo distruggendo il seccatoio delle castagne e l’avvenimento pauroso è rimasto impresso nella memoria di generazione in generazione.
– È certo che la “Cà del Vento” è proprio su un crinale aperto a tramontana e d’inverno mi devo coprire ben bene per non prendere un malanno quando devo salire fin lassù.

La postina si era rimessa a cercare il muschio, con l’aiuto di un coltellino lo staccava da terra e lo metteva a strati nel mandillo.

– Mi dica altri nomi.
– Ci sono cascine di crinale, che in dialetto si dice costa, allineate lungo gli spartiacque fra un rittano e l’altro: “Costa lunga”, “Costa bella” “Costa del prato”. E poi ci sono le cascine adagiate nelle zone pianeggianti sui versanti soleggiati, au sürì: “Cian del Merl”, ”Cian del Mai” che in dialetto vuol dire melo, “Cianlan”, ma anche “Sürìe”, “Süriette”. Non ci sono case al livernaing, per fortuna.
– Che cos’è il livernaing?
– Sono le zone ombrose, dove la neve si scioglie più tardi in inverno.

La postina si era fermata e aveva ripreso la sacca delle lettere, mettendola a tracolla su una spalla. In mano aveva il mandillo del muschio. Porterà con sé l’odore del bosco, nel tepore della cucina, accanto alla stufa a legna.

Dopo qualche mese la neve aveva lasciato libere le carrarecce nel bosco e io avevo potuto riprendere le mie camminate. Mi soffermavo sulla soglia delle piazzole dove un tempo sorgevano le carbonaie, grandi cataste di legna a più piani costruite magistralmente, con una cupola di terra dove venivano praticati gli sfiatatoi. Il carbonaio accendeva il fuoco all’interno e sorvegliava la cottura per una settimana, giorno e notte, dormendo in una baracca di legno o in un seccatoio delle castagne, piccola costruzione in muratura a due piani che in dialetto chiamano scau. Ora il carbone di legna di faggio o di rovere non si fa più e nel bosco sono rimaste radure circolari di sette o otto metri di diametro. E il nome di qualche cascina: Carbunera.
Era una mite mattina di fine marzo. La maestra di Cravarezza l’ho incontrata all’imbocco del rittano, nei pressi della vecchia ferriera. Stava per inerpicarsi su per il sentiero che accorcia il cammino verso la scuola, a due ore da lì, in cima alla valle, non lontano dalla “Cà del Tasso”. È la scuoletta delle cascine, immersa nei boschi di castagno e di faggio. C’è aria buona lassù. D’inverno ogni bambino porta un ceppo di legno da casa per alimentare la stufa. La maestra dormirà nella stanzetta sopra all’aula della pluriclasse e solo il sabato ridiscenderà, prenderà la corriera della SABA e tornerà a casa, in uno dei paesi del fondovalle. Era giovane e svelta, come un furetto.

– Che cos’è quel grande quaderno che ha sottobraccio? – le ho chiesto.
– È un erbario. Lo preparo con i bambini. Raccogliamo le foglie e le mettiamo tra una pagina e l’altra, protette dalla carta velina. Scriviamo i nomi delle piante, le descriviamo e le classifichiamo. Ora è vuoto, ma fra qualche giorno, cominceremo a riempirlo con le prime foglie primaverili.
– Quali piante scegliete?
– Un po’ tutte quelle del bosco: frassini, faggi, castagni, carpini, salici, sambuchi, querce, ontani, agrifogli, ma lo scorso anno scolastico ci siamo dedicati soprattutto ai meli.
– Perché?
– Perché ci sono molte varietà locali, dal cichinat al caplat, dal ‘rzinaint al masclen, dal maurizien al ciuchen.
– Sono nomi dialettali?
– Sì, non esiste il corrispondente italiano. Io mi sono ingegnata a cercare l’origine delle parole insieme ai miei alunni. Cichinat da Cich, diminutivo di Francesco, caplat da cappello, ‘rzinaint da ruggine, masclen da mascella, nel senso di piccola guancia, e così via. Il nome del melo proviene da chi l’ha trovato o innestato per primo, un leggendario Cich o Maurizio, o da qualche sua caratteristica, la forma, il colore, il tipo di buccia. Ciuchen vuol dire campanellino e indica una mela che suona se la si scuote, facendo vibrare i semi che sono all’interno. Sono nomi antichi, che si vanno perdendo insieme alle varietà che designano, ma ogni anno proprio a marzo i contadini prendono le marze dai rami dei meli vecchi e le innestano sui meli selvatici che crescono ai margini del bosco. E anche noi diamo una mano con il nostro erbario a conservare la memoria di questi antichi meli per le nuove generazioni.
– Raccogliete anche le piante selvatiche?
– Sì, mettiamo una foglia nell’erbario e i bambini portano le piante raccolte a casa, dove le mamme preparano gustose frittate o il ripieno per i ravioli, con ortiche (ürtìe), tarassachi (denci ‘d can), cuighe, radicce, verdixi, foglie e fiori delle primule (sciure ‘d cüc).
– Grazie per questa bella lezione, sono sicuro che i suoi alunni saranno entusiasti di lei.
– Ora devo andare, mi scusi, altrimenti arrivo tardi a scuola.
E si è incamminata su per il sentiero, con un bel passo da bersagliera.

Non so se rivedrò ancora i custodi del bosco. Non so se camminerò ancora su e giù per i rittani, alla ricerca dei nomi perduti. So che adesso sono diverso da prima, che quegli incontri mi hanno cambiato, che la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria di queste valli sono entrati nella mia carne e nelle mie parole. Sento che ora posso ridiscendere il rittano, lasciare alle mie spalle la “Passerina”. E il ricordo di mio nonno, l’ultimo “Passerino”. O, meglio, il penultimo, se anch’io sono riuscito a vivere il territorio in cui sono nato con maggiore consapevolezza, dopo le mie camminate di cascina in cascina, guidato dai gesti e dalle parole dei custodi del bosco. E a restituire simbolicamente a mio nonno un po’ di quello che lo sradicamento contadino e operaio, contro cui aveva tenacemente opposto resistenza fino al termine della sua vita, gli avevano tolto. Per la mia generazione e per quelle che verranno resta aperto il tempo di una lotta vitale, contro l’omologazione delle culture e delle lingue, contro l’eterno e immateriale presente dei non-luoghi, per la difesa di un territorio in cui, sapendo leggere le tracce lasciate dalle generazioni passate, sia ancora possibile, “poeticamente abitare”.

 

 

(1) Ruscello, rio. Il termine rappresenta l’italianizzazione di una voce dialettale diffusa in Piemonte e Liguria ed è utilizzato diverse volte da Beppe Fenoglio ne Il partigiano Johnny.

(2) Bric in dialetto significa monte, da una base germanica o gallica berg.

 

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