Under 14 – Scappando da Tobruk

Scappando da Tobruk

di Alessia Limongelli

Tutor: Claudio Piccirillo – Scuola: I.C. Maiorana di Roma

 

SBAM!

Arriva un’altra onda, ancora più forte della prima, come uno schiaffo. L’acqua entra nella bocca, nel naso, negli occhi e nelle orecchie. Non riesco a respirare. Il cuore mi batte fortissimo, nel petto e in gola, come un martello.

Cerco di staccarmi i vestiti bagnati dalla pelle, tremando dal freddo e chiamo mamma con la voce strozzata. M’infilo una mano in tasca e prendo la torcia a pile che mi aveva regalato zia Naima prima di partire. L’accendo e mi guardo intorno: il mare ora è più calmo, ma il barcone ondeggia ancora pericolosamente.

Mamma sta abbracciando Fathi, il mio fratellino di cinque anni. Ha gli occhi lucidi e gonfi e probabilmente ha pianto fino a poco tempo fa. Ad un tratto sento una mano che mi stringe il braccio e la torcia mi cade in acqua, un guizzo di luce e poi buio.

Mi sento sussurrare: – Ragazzina, hai deciso di farci scoprire ora che siamo in prossimità della spiaggia? – Faccio NO con la testa, pentita, ma la mia pancia fa capriole dalla felicità: siamo vicino alla terraferma! Mi avvicino a mamma e a Fathi facendo barcollare il gommone, li scuoto e gli comunico con entusiasmo che siamo quasi arrivati.

Effettivamente all’orizzonte si comincia a distinguere il profilo dell’isola e tra poco toccheremo la costa siciliana. Anche gli altri viaggiatori sembrano improvvisamente destarsi dal loro stato di malinconia e si sente un brusio continuo e pacche sulle spalle.

Fathi mi si avvicina e mi abbraccia, probabilmente confortato anche lui dal fatto che questo lungo e tremendo viaggio stia per finire, nonostante, non so come, abbia dormito per gran parte del tempo.

Noi veniamo dalla Libia, da Tobruk. Scappiamo dalla guerra, ma gli altri paesi non ci vogliono aiutare: ci sbarrano le frontiere, costruiscono muri e marcano confini e pensano con ignoranza che siamo tutti terroristi perché musulmani. Grazie ad Allah nostro padre ha incontrato un signore tanto buono nella periferia di Palermo che non lo ha fatto lavorare in nero e in condizioni pietose, anzi lo ha aiutato ad ottenere il visto per rimanere in Italia e gli ha consigliato il modo migliore per far venire anche noi. Mio padre sostiene che quell’uomo è un tesoro e che nel mondo sono rimaste poche persone così, con una grande generosità e un’umanità così bella.

Mi riporta alla realtà il parlare concitato dei nostri “accompagnatori”, i due scafisti. Alzo lo sguardo e rimango a bocca aperta: i colori dell’alba fanno da contorno al profilo della spiaggia deserta ormai vicinissima; giallo, rosa e arancio contrastano con la sagoma scura del territorio siciliano e creano un effetto di controluce strabiliante.

Finalmente tocchiamo con uno scossone la battigia, scendiamo e poco dopo guardiamo il gommone allontanarsi lasciando una scia bianca dietro di sé. Sinceramente non mi ricordavo la sensazione della sabbia sotto i piedi nudi, i granelli che ti s’infilano in mezzo alle dita e il solletico che ti procurano. Io mi stringo a mamma, non mi piace stare in mezzo ed essere spintonata.

Le chiedo: – Mamma, papà ci viene a prendere o dobbiamo andare da lui? Io ho sonno, non ce la faccio a camminare…

Viene papà, Amina, non ti preoccupare, dormi – Mi risponde.

Faccio giusto in tempo a vedere mamma che va a recuperare mio fratello che sta giocando sul bagnasciuga e mi addormento.

Fathi sta correndo per tutta la spiaggia dove siamo approdati.

Ma ecco che è catturato con una rete da un signore con una divisa.

Il signore chiede a mio fratello da dove viene.

Fathi gli risponde che viene dalla Libia.

È buttato in mare.

Però poi esce dall’acqua volando in braccio al signore buono che ha aiutato nostro padre.

Il signore buono dà alla polizia tre foglietti ripiegati e riporta Fathi sulla spiaggia a correre.

Ma guarda di cosa è capace la mente umana… Mi sveglio col fiatone. Sono sdraiata sulla sabbia vicino a Mamma e Fathi. La stoffa a pois del velo di mamma mi solletica il naso e mi fa venire voglia di starnutire. I miei capelli, intrecciati da quando avevo due anni, sono incrostati di salsedine e mi pizzicano gli occhi. A destarci però non è papà ma dei signori dalla carnagione chiara, tutti vestiti con delle tute bianche e mascherine in faccia. I signori ci danno una sottile coperta di plastica dorata e argentata. Mi chiedo come possa proteggerci dal freddo, ma con mio grande stupore là sotto c’è un bel calduccio. Mamma sta cercando di spiegare ai signori in bianco che deve chiamare papà ma dato che parlano in italiano e noi in arabo devono capirsi a gesti e questo mi pare alquanto complicato.

Gli uomini ci fanno salire su un pulmino e ci portano in un centro di accoglienza. Ci sono molte persone: uomini, donne, mamme e bambini. Uno alla volta scendiamo dal pullman ma, invece di fermarci e andare a giocare, ci portano in una stanza tutta bianca e ci danno dei cartoncini con delle scritte che non riesco a decifrare e ci fanno delle foto. Poi, finalmente, ci fanno uscire. In un angolo dei signori stanno cantando in una lingua che non conosco e gran parte delle donne sta pregando in ginocchio. Gli unici che sembrano non accusare quest’aria di disperazione sembrano proprio i bambini. Qualcuno sta giocando a calcio, altri con gli aquiloni, compreso mio fratello. Alzo lo sguardo. L’aquilone più alto sta tagliando i fili di tutti, vincendo. Seguo il filo fino ad arrivare a chi lo sta guidando e mi accorgo con stupore che non è un ragazzo, bensì una bambina con i capelli neri. Muove l’aquilone con grande sicurezza, chissà che non venga dall’Afghanistan, come i protagonisti di un libro che ho letto qualche tempo fa. Mi avvicino e le rivolgo la parola. Le mani le stanno sanguinando, ma considerata la quantità di calli sulle sue mani e la sua aria sicura forse questa per lei è una passione. In men che non si dica facciamo amicizia e diveniamo inseparabili. Ci confessiamo segreti che erano rimasti dentro di noi per anni come se fossimo ognuna il diario segreto dell’altra. Finchè un giorno…

Stiamo mangiando e i responsabili ci stando distribuendo le razioni di cibo. Mi sento tirare per una manica e mi volto verso Fatima, ormai diventata la mia migliore amica. Ha un’aria seria e smetto di sorridere preoccupata. Mi sussurra all’orecchio: – Seguimi, ho bisogno di dirti una cosa che non ho mai detto a nessuno qui. – Mi conduce accanto al muro della mensa e mi dice: – Sai, sono qui da molto più tempo di te. I miei genitori sono morti durante il viaggio per arrivare in Italia. Mi sono salvata solo io della famiglia e adesso, così come da molto tempo, sto cercando qualcuno che mi adotti, non ho bisogno di aiuto per quello che sto vivendo ma semplicemente di un supporto morale e affettivo come quello di una nuova famiglia.

A questo punto mi sento spaesata. Capisco il suo dolore ma proprio non comprendo cosa centri io in tutto questo. Come leggendo gli interrogativi nella mia mente lei prosegue: – Poi ho conosciuto te e ho saputo che hai un padre che lavora e che ti potrà mantenere insieme a tua madre e tuo fratello. So anche che sarà questione di pochi giorni prima che ci separeranno…Ed ecco…non ti voglio perdere.

Abbiamo entrambe le lacrime agli occhi e io l’abbraccio forte. Ma lei non ha finito. Ed ecco che arriva al punto principale della questione. Una frase a bruciapelo: – Portatemi via con voi.

L’indomani incontriamo papà, che è riuscito a rintracciarci dopo diversi tentativi. I miei genitori hanno più di un anno di vicende da raccontarsi ma come argomento principale c’è la questione di Fatima… Come potrebbero lasciarla lì tutta sola, sapendo che non ha più nessuno che potrà prendersi cura di lei? E’ un attimo, papà firma qualche pezzo di carta qui al centro di accoglienza e, stringendo la mano del signore in divisa, fa un cenno verso di noi per comunicarci che è tutto ok.

Fuori ad aspettarci il signore buono che, con una macchina, ci accompagna in quella che sarà la nostra nuova casa italiana.

Sono passati diversi anni da quel giorno e tante cose, nel frattempo, si sono sistemate. Fatima ed io lavoriamo entrambe in un’azienda tessile e ci siamo integrate perfettamente. Chissà se un giorno potremo tornare nelle nostre rispettive terre… ma questa è un’altra storia!

 

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